LA VIDA ES SUEÑO

I referendum che si sono tenuti in Lombardia e in Veneto sono parte di un sentimento generale di sfiducia nei confronti dei governi centrali. Non tanto perché i votanti siano sicuri che i politici locali saprebbero far meglio, quanto perché sono sicuri che è difficile fare peggio. In fondo tutta la dottrina politica del Movimento 5 Stelle si riassume in questo. E infatti i suoi insuccessi non intaccano le intenzioni di voto a suo favore perché la gente non si aspetta miracoli, dal Movimento: semplicemente voterebbe per il diavolo, pur di dire no a quelli che già stanno a Roma.
Ma la reazione di rigetto non è soltanto italiana. Non sfuggono a questo stato d’animo politico gli Stati Uniti, quando votano per Trump; i francesi quando votano per Marine Le Pen o abbandonano i grandi partiti per votare un Macron che ha solo il pregio di rappresentare una novità; gli inglesi che votano per l’uscita dall’Unione Europea e magari fanno credito a un personaggio come Corbyn; la Germania che plaude ad un partito, come Alternative für Deutschland, che fino a qualche anno fa si sarebbe considerato indecente. La stessa piccola Repubblica Ceca nelle recenti elezioni si affida a un improbabile miliardario. Dovunque è tutto un rosario di delusioni, di proteste, di fughe in avanti e perfino verso il nulla.
La gente è scontenta. È esasperata al punto da fare follie. E volere spiegare un fenomeno che traversa i decenni, scavalca l’Oceano, si manifesta a Nord e a Sud, ad Est e ad Ovest, non è impresa da poco. Forse soltanto gli storici futuri avranno le idee abbastanza chiare per spiegare ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Oggi si può soltanto sperare di cogliere una parte della verità. Di formulare almeno delle ipotesi, magari ottenendo qualche luce da chi quelle stesse ipotesi mette in dubbio.
Fra le principali ragioni dello scontento ci sono la disoccupazione, la stagnazione economica, le basse pensioni, l’eccesso di pressione fiscale, il grande numero di poveri male assistiti, i limiti e le disfunzioni della sanità pubblica, l’insufficienza dei servizi forniti dagli enti locali, e tanti altri problemi per i quali, in fin dei conti, la soluzione sarebbe sempre la stessa: il denaro. Col denaro si potrebbero fare grandi investimenti, eliminando la disoccupazione. Si potrebbe rilanciare l’economia. Si potrebbero imporre meno tasse. Si potrebbe risolvere tutto, insomma. Ma dove trovarlo, il denaro? E poiché questa domanda non ha risposta, non hanno molto senso le promesse elettorali e buona parte della politica. Le nozze non si fanno coi fichi secchi, e qui sono perfino i fichi secchi, che mancano. Ecco perché si può sorridere amaramente dei tentativi di innovazione, delle soluzioni autonomistiche, delle proteste, delle speranze e delle minacce di tutti. Queste cose sembrano una sceneggiata che non intacca minimamente una situazione inamovibile.
Ma lo stesso denaro è una falsa soluzione, per l’ottima ragione che, per se – come si direbbe in latino – non esiste. Non è ricchezza, è soltanto un intermediario per il trasferimento della ricchezza. Per questo, se i cittadini producessero una grande ricchezza, e una parte di questa fosse prelevata dallo Stato, si potrebbero assistere i poveri, sostenere i disoccupati, migliorare i servizi e via dicendo. Se invece i cittadini producono poca ricchezza, non soltanto lo Stato ne riceverà poca e potrà fare poco, ma spremendo i cittadini col fisco li indurrà a produrre sempre meno.
Questo semplice schema mette a fuoco l’errore. Ci si aspetta che lo Stato risolva il problema, mentre esso ha soltanto la funzione di stabilire il quadro in cui la ricchezza può essere prodotta, prelevandone poi una parte e non certo producendola esso stesso. Perfino quando la preleva per usarla a favore dei contribuenti, nel giroconto dai cittadini ai cittadini una parte della stessa ricchezza si perde negli ingranaggi dell’Amministrazione. Ed è questa la ragione per la quale, sia detto al passaggio, il cosiddetto problema della distribuzione della ricchezza è futile. Il problema non è distribuirla, il problema è produrla.
La causa fondamentale della crisi è la sproporzione fra la ricchezza che i cittadini producono e quella di cui essi vorrebbero beneficiare. Questo fenomeno può avere le cause più diverse, e se ne possono enumerare alcune, senza sostenere che la lista sia completa e che esse operino dovunque nello stesso modo. Può darsi ad esempio che il lavoro sia appesantito da troppe guarentigie, da troppe “conquiste sindacali” e da troppi vincoli, per essere competitivo con i Paesi “meno progrediti”. Può darsi che la pressione fiscale sia passata da fardello dei produttori a freno della produzione, fino a permettere la sopravvivenza soltanto alle imprese con maggior margine o a quelle che evadono il fisco. Può perfino darsi che i cittadini abbiano ormai una tale concezione della comodità della vita da non strapazzarsi abbastanza per produrre ricchezza. Tutto ciò per non parlare dell’autentico esercito di dipendenti dello Stato, la cui produttività è sempre bassa e il cui peso economico è schiacciante.
La crisi non è politica. I futuri governanti non saranno né migliori né peggiori dei passati perché gli uni e gli altri sono impotenti a modificare la realtà. Forse la crisi è economica ma non perché lo Stato non sappia dirigere il Paese: piuttosto perché il Paese è bloccato nella sua bassa produttività. La crisi è insolubile perché ognuno continua a pensare che tutto dovrebbe andar meglio senza che la sua personale condizione peggiori. Mentre è proprio il modello socio-economico generale che bisognerebbe cambiare.
Per tutte queste ragioni è cosa assolutamente giustificata sentire una profonda noia, nei confronti del dibattito politico, e perfino nei confronti dell’esasperazione della gente.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
23 ottobre 2017

LA VIDA ES SUEÑOultima modifica: 2017-10-24T08:20:37+02:00da gianni.pardo
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