VITTORIO EMANUELE III, UN POVERO SCHELETRO

Se c’è una cosa triste, e vagamente macabra, è litigare sui morti. Per questo, in linea di principio, bisognerebbe tendere a lasciare le cose come sono. Se di un personaggio si è per così dire persa la memoria, tanto che il nome di una strada o di una piazza prevale sul suo ricordo, è meglio non “fare giustizia”. Ammesso per ipotesi che il generale Luigi Cadorna, quello della Prima Guerra Mondiale, sia stato uno che ha fatto morire inutilmente decine di migliaia dei nostri soldati, cioè un cretino e un macellaio, dal momento che la maggior parte delle persone ormai non sa più chi sia, è inutile disturbare postini e cittadini, cambiando il nome di una strada intitolata a lui. Che via Cadorna rimanga via Cadorna.
Diverso è il caso di personaggi dei quali, malgrado il lungo tempo passato, la memoria è fin troppo viva. Se in una cittadina, a causa di un eccessivo entusiasmo per l’alleato tedesco, alla fine degli Anni Trenta si fosse intitolato un viale a Hitler, oggi sarebbe pur necessario cambiare quel nome, perché quelli che vi abitano sarebbero sempre imbarazzati, dando il loro indirizzo. Dovrebbero continuamente confessare che gli amministratori della loro città a suo tempo ammiravano un simile personaggio.
Il problema di casa Savoia, al riguardo, è particolarmente complesso. La leggenda laudatoria vorrebbe che tutti i monarchi siano stati grandi personaggi, mentre la ricerca storica ne mostra fin troppo spesso gli errori, le miserie e i limiti. In una parola la semplice umanità. Vittorio Emanuele II cavalca impavido su molte delle nostre piazze, ma nella realtà fu una sorta di bifolco che molti distinti borghesi non amerebbero frequentare. Dunque in primo luogo bisognerebbe chiedersi che cosa ne sa, la gente, di questa nobile stirpe.
Il caso di Vittorio Emanuele III fra l’altro è particolarmente triste. In lui si intrecciano la sfortuna di una sorta di deformità fisica (le gambe troppo corte, una statura insignificante) e notevoli problemi caratteriali in cui si incrociavano un’acuta e suscettibile coscienza della propria dignità e un realismo che confinava con la viltà; un severo sentimento dei propri doveri di sovrano e tuttavia una capacità molto umana di badare, all’occasione, soltanto alla propria personale sicurezza. E tutto ciò in un momento in cui le scelte della monarchia – di fronte al fascismo e di fronte alla disastrosa sconfitta durante la Seconda Guerra Mondiale – avrebbero richiesto ben altra tempra di uomo e ben altra risolutezza di sovrano.
Oggi che la sua salma è rientrata dall’Egitto, dove il re morì tanti decenni fa, si rinfocolano i rancori e la severità del giudizio non è attenuata dal lungo tempo passato. Si accusa il re di connivenza col fascismo, dimenticando che di questa connivenza si rese colpevole l’intero popolo italiano. E il re non avrebbe potuto farci niente. Lo si accusa di avere controfirmato le leggi razziali fasciste, senza chiedersi però se avrebbe avuto alternativa. Infine – e qui veniamo al capitolo più doloroso – lo si accusa di furbesca indecisione nel momento dell’ignominiosa resa dell’Italia nel 1943. E per questa parte il re è difficilmente difendibile.
Il suo comportamento, in quei giorni, fu opportunista, cinico, perfino vile, se si vuole. E purtroppo in linea con un certo temperamento italiano. Non si intende offendere la nazione, si vuole soltanto dire che le infinite disgrazie storiche – dalla caduta dell’Impero Romano alle ricorrenti invasioni, alla mancanza di una monarchia unitaria come l’hanno avuta la Francia e la Spagna – non hanno creato da noi un sufficiente spirito nazionale. Il Sud ha potuto inventare una malavita organizzata (che ne è diventata il modello nel mondo) perché in quelle regioni lo Stato, insufficiente e lontano, si è spesso fatto percepire soltanto come rapina fiscale ed oppressione straniera. Così gli italiani, e in particolare i meridionali, hanno soprattutto imparato a sopravvivere comunque. “Franza o Spagna, purché se magna”. La dignità, la parola data, l’immagine di sé sono tutte cose che venivano dopo.
Il re si conformò a questo modello arrestando Mussolini, fuggendo a Pescara, affidandosi a Badoglio, facendo il pesce in barile fra i vincitori e l’alleato tedesco, col bel risultato di farsi disprezzare da ambedue le parti. In questo Vittorio Emanuele III non può essere perdonato come re, perché il potere del re riposa sulla sua immagine. E distrutta quell’immagine, si è distrutta la monarchia. Mia madre, maestra elementare, non faceva che ripetere la sua stima per il re del Belgio, rimasto al suo posto, e il suo disprezzo repubblicano per una monarchia modello di opportunismo e di viltà.
Parce sepulto. Si può avere pietà di un re irriso col soprannome di “Sciaboletta”, ma bisogna riconoscere che sarebbe forse eccessivo porlo fra gli dei, nel Pantheon. Che la salma torni pure in Italia: è un povero scheletro e nulla più. Ma si consenta all’Italia di dimenticare un uomo che, se fu personalmente sfortunato, fu anche una sfortuna per il suo regno.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
19 dicembre 2017

VITTORIO EMANUELE III, UN POVERO SCHELETROultima modifica: 2017-12-19T17:50:19+01:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “VITTORIO EMANUELE III, UN POVERO SCHELETRO

  1. Perfettamente d’accordo !
    Tra le ignominie non vedo l’accordo con Kesselring per avere via libera nella fuga.
    Che ne pensa professore ? C’è stato veramente ?
    O Zangrandi si è inventato tutto ?

    Saluto
    P.S.:Eppure durante la grande guerra pare si sia comportato bene e nel 22 non sembrava che ci fossero tante altre opzioni: o il Caos o Mussolini.
    Diciamo che doveva farlo scendere molto prima. Qualche sciocchezza ce la saremmo evitata.

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