LA PACE IN PALESTINA, REALISTICAMENTE

Accertare la verità non sempre è facile. Ma è notevole che, fra queste difficoltà, ce ne sia una imprevista e tuttavia molto grande: quella di accettarla. Se, di una persona mite, che per giunta stimiamo, ci vengono a dire che ha commesso un omicidio, la nostra prima reazione è: “Non è possibile!” E questa espressione significa che, se appena troveremo un appiglio, negheremo che la cosa sia vera.
In questo campo c’è un dato storico di grandissimo valore. Durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti decisero di uccidere tutti gli ebrei, tedeschi e no, ma, per qualche ragione, decisero di tenere questa Endlösung (soluzione finale) accuratamente e severamente segreta. I tedeschi, che non potevano certo ignorare la loro sparizione, credevano che quei poveretti fossero deportati. Finita la guerra, avuta la notizia del genocidio e delle sue dimensioni, molti non ci volevano credere. Al punto che gli americani, per convincere i monacensi, li invitarono a visitare fra gli altri il campo di Dachau, vicino Monaco, ovviamente predisponendo un servizio sanitario per quei tedeschi che vomitavano, si sentivano male o svenivano, constatando ciò che era avvenuto a venti chilometri da casa loro. Ma – è questo che si vuol sottolineare qui – la segretezza dell’operazione fu favorita dal fatto che, se qualcuno, malgrado i rischi connessi alla fuga di notizie, avesse rivelato la realtà, sarebbe stato accolto dallo scetticismo di tutti: “Non è possibile!”
Questo atteggiamento è molto umano, ma anche molto stupido. Ci sono due espressioni simmetriche e ugualmente imbecilli: “È troppo bello per essere vero”, “È troppo brutto per essere vero”. La verità è soltanto il riflesso della realtà e non tiene conto dell’estetica. Un mio corrispondente poco più che cinquantenne mi ha scritto che, improvvisamente, in seguito ad un lieve disturbo, gli avevano diagnosticato un cancro che non lasciava scampo: aveva qualche mese di vita. Era un uomo vivace, brillante, dal grande temperamento, e tuttavia, dopo qualche mese, morì. Così come muoiono, di cancro, anche dei bambini. La realtà non si commuove e non si preoccupa dei nostri sentimenti.
Anche in campi meno drammatici è necessario fare uno sforzo per accettare la realtà. Per esempio quella dell’odio altrui. Uno dei tratti negativi di Silvio Berlusconi è il suo desiderio di essere amato da tutti e questa caratteristica immagino gli abbia reso difficile non dico capire ma concepire che milioni di italiani lo odino di un odio viscerale, assolutamente sprovvisto di qualsivoglia giustificazione concreta. Ma appunto, sarebbe un atto di buon senso, da parte sua, negare questo fatto?
Nemmeno io sono del tutto innocente, in questo campo. Molti anni fa mi capitò che una persona della mia famiglia prima tentò di truffarmi (denaro) e quando non ci riuscì, per vendicarsi, cercò in tutti i modi di nuocermi. Io ci misi tempo a riconoscere la verità (e per questo la truffa aveva rischiato di riuscire, “Non è possibile!”).
Queste considerazioni valgono al presente per quanto riguarda la questione israelo-palestinese. I palestinesi – che abbiano ragione o torto – odiano Israele. Non nel senso che vorrebbero che quello Stato concedesse qualcosa, cambiasse il suo comportamento o attuasse un certo programma: vogliono soltanto che sparisca. Se sono moderati sognano di scacciare dal Vicino Oriente tutti gli ebrei, se sono animosi sognano di ucciderli tutti. E infatti, visto che la realtà glielo impedisce, si accontentano di accoltellare qualche passante ignaro per la strada, a costo di essere immediatamente uccisi dalla polizia. L’azione di un pazzo? chiederà qualche benpensante. Nient’affatto. Lo si vede nella stima in cui è tenuto, da parte di tutti i media palestinesi, un simile “martire” della causa. Tanto che – se non ricordo male – si assegna anche una pensione alla sua famiglia. Ed è proprio questa la difficoltà, quando si tratta di capire il problema di quella regione: non si può trovare un compromesso con chi ti vuole uccidere. Non si può morire “solo un po’”, per far contento qualcuno. In questo caso l’alternativa è semplice: o l’altro riuscirà ad ucciderci, o noi riusciremo ad impedirglielo, ma certo non ci sarà pace.
Per chi avesse dei dubbi: a parte ciò che va proclamando l’Iran, l’eliminazione dello Stato d’Israele è scritta nel documento fondamentale di Hamas, a Gaza.
Nell’antichità, il problema si sarebbe risolto facilmente. Quando i rossi capivano che i verdi volevano ucciderli, li precedevano uccidendoli prima loro o espellendoli dalla regione. In quei tempi la pace si raggiungeva anche in questo modo. Anzi, quando un problema del genere si produsse nella ex Jugoslavia fra musulmani e ortodossi, Luttwak segnalò proprio questo fatto, concludendo che nell’epoca moderna, trovando inammissibile l’antica soluzione, bisogna rassegnarsi ad una situazione di costante non-guerra-non-pace.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
16 maggio 2018

LA PACE IN PALESTINA, REALISTICAMENTEultima modifica: 2018-05-17T13:46:30+02:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “LA PACE IN PALESTINA, REALISTICAMENTE

  1. Sull’argomento un articolo di Giuliano Ferrara. Lo pubblico per esteso perché il link non si apre se non si è abbonati.

    IL RISCHIO DI CHI SI FA CONFONDERE DAI SENTIMENTI SU GAZA E ISRAELE
    I tiepidi che non stanno “né con Hamas né con Netanyahu”

    Il senso politico del tiepido appello firmato da persone stimabili come Anna Foa e Wlodek Goldkorn, fra gli altri, è purtroppo nudo e crudo: né con Netanyahu né con Hamas. Le motivazioni, trattandosi di persone che non hanno venduto il cervello all’ammasso dell’odio per il “colonialismo” o “l’apartheid” israeliano, sono evidentemente sentimentali. Lo spettacolo di un esercito regolare che tira su civili ai confini tra uno stato che ha la sua forza, la sua opulenza, la sua grinta, e una striscia di terra popolata dai fantasmi, donne vecchi bambini giovani, dove terrore fame disperazione sono legge del quotidiano, è in sé ributtante. Prova un sentimento di sconforto davanti agli eventi e alle vittime anche chi diffida delle retoriche pseudodavidiche, la fionda contro il Goliath, i miserabili che hanno sempre ragione per la loro vulnerabilità intrinseca, anche chi giudica matura la decisione americana di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme capitale d’Israele, in esecuzione di un impegno del Congresso che risale a molti anni fa, sebbene le cerimonie mondane per una targa ufficiale avessero qualcosa di stucchevole e di aspramente intollerabile, data la situazione, e davvero sarebbe stata preferibile l’asciuttezza del fatto al posto della versione colorita del taglio del nastro. Questo sentimento, spero lo si possa riconoscere in ragione della comune umanità, non ha niente di disdicevole, e non va confuso con la tronfia e ideologica sicumera “de sinistra” di un Massimo D’Alema, politico fallito e in cerca di riconoscimento ideologico che mette la politicuzza al posto della pietà, lui, notorio partigiano di Hezbollah e di un filopalestinesimo ideologico contraffatto. Ma i sentimenti sono la forza del cuore, le cui ragioni non si possono disconoscere, e la debolezza della ragione, che è la sola risorsa possibile per le grandi questioni politiche di vita o di morte, per popoli individui e stati o comunità. Giulio Meotti ha mille volte, e anche qui, raccontato che cos’è un confine come quello di Gaza, mettendosi dal punto di vista di una comunità minacciata dal nichilismo e dal propagandismo terrorista, dalla esplicita volontà di annientare, e con la massima brutalità, chi ha diritto a vivere in pace e sicurezza nel focolare nazionale degli ebrei, persone e non princìpi astratti. Yossi Klein Halevi nel Corriere ha parlato con amarezza e rassegnazione politica del ciclo di negazione di cui sono prigionieri gli attori del conflitto, senza nascondere la circostanza decisiva: la negazione storica dirimente è quella che investe in pieno, in una logica di vita o di morte, lo stato di Israele, i suoi confini, le sue case, le sue città, le sue anime, i suoi corpi, la sua democrazia, il suo sforzo eroico di costituirsi come estremo baluardo di un sogno millenario e di un progetto politico moderno legittimato anche dalla comunità internazionale all’atto della nascita di quel paese. La fionda contro il cecchino eccita il sentimento, confonde le cose, rovescia gli istinti di protezione e la stessa saggezza del giudizio, ma l’assedio tenace e annientatore di un esperimento di storia e di vita, di libertà e di indipendenza, di rifugio e di autodifesa, quello chiama in causa la ragione o, se vogliamo essere meno monumentali, una ragione.
    Chi se ne fotte del Sionismo, chi non crede che Israele sia un diritto convalidato dalla storia e dalla più inaudita catastrofe, quali che siano state le sofferenze patite da una parte e dall’altra della storia stessa, ha tutto lo sporco diritto di credere che Gaza è un simbolo di resistenza e Israele di repressione. Chi ha l’esistenza e la pace di Israele incardinate nella ragione, e forse anche nel cuore, non ha il diritto di cedere al sentimentalismo univoco e sospetto, e di dichiararsi, quanto a conseguenze politiche, né con Netanyahu né con Hamas. E’ peggio che un delitto, è un errore. Di cui sono gli israeliani, e anche gli arabo-palestinesi disperati, a sopportare le vere conseguenze.

  2. Stimo Giuliano Ferrara una persona intelligente, ma in certi casi bisogna avere il coraggio della chiarezza e della semplicità. In questo caso si è organizzata una gigantesca operazione di pubblicità, nella quale i morti erano necessari, perché la stampa se ne occupasse.
    Fra l’altro, Hamas ha riconosciuto (o si è vantata?) che una grande percentuale dei caduti erano suoi militanti. Che dovevano fare, i soldi israeliani, stendere tappeti?
    Ma contro i palestinesi, agli occhi delle anime belle, non serve assolutamente a niente avere ragione.

  3. Sempre sullo stesso argomento l’articolo di Giulio Meotti citato da Ferrara.
    I maggiori quotidiani italiani hanno minimizzato le violenze dei palestinesi. Non si è trattato solo di pneumatici incendiati e di sassi lanciati oltre il confine con le fionde.

    “Hamas vuole distruggerci. Ma Israele non farà le valigie”
    di Giulio Meotti http://www.ilfoglio.it

    Parla Ilan Isaacson, capo della sicurezza dei kibbutz al confine con Gaza. “Abbiamo pochi secondi per trovare riparo”

    Roma. “Mentre arrivavano le notizie da Gaza, lunedì non ho fatto altro che passare da un kibbutz all’altro a rassicurare la popolazione, e poi a spegnere incendi”. Ilan Isaacson fa un lavoro ingrato. E’ il capo della sicurezza del consiglio regionale di Eshkol, ovvero le comunità israeliane a ridosso della Striscia di Gaza. Ottocento metri separano Nahal Oz dal reticolato assaltato dai palestinesi. Oltre c’è Shejaiya, un quartiere di Gaza. Il kibbutz Nir Am durante l’ultima guerra si è svegliato con un tunnel di Hamas nei suoi giardini. Poche centinaia di metri separano gli israeliani di Nirim da Khan Younis. “Il confine era aperto” racconta al Foglio Isaacson, che è anche riservista e comandante di un battaglione dell’esercito e che vive a Sde Nitzan, un moshav non lontano da Gaza. “Andavamo nella Striscia a fare la spesa, mia moglie si recava a Rafah. E i palestinesi venivano qui a lavorare. Avevamo ottime relazioni. Poi l’Intifada, i missili, il golpe di Hamas hanno cambiato tutto. Hamas vuole distruggerci. Insegnano questo ai loro bambini. Per questo oggi quel confine riconosciuto dal 1947 è chiuso”. Ieri due ministri, Yoav Galant e Gilad Erdan, hanno detto che Israele potrebbe tornare alle uccisioni dei capi di Hamas, a cominciare dal leader Yahya Sinwar: “Hanno detto che vogliono morire sul confine, accontentiamoli” ha spiegato Erdan. Di ieri la notizia di parte israeliana che 24 delle vittime di Gaza erano effettivi dei gruppi terroristici.
    Ilan Isaacson, capo della sicurezza delle comunità israeliane che vivono a ridosso della Striscia di Gaza, invita ad aprire una mappa. “C’è un confine anche fra Egitto e Gaza”, dice Isaacson al Foglio. “Perché l’Egitto non lo apre, sono loro fratelli arabi no? E perché nessuno glielo chiede? Perché la relazione fra Hamas ed Egitto è peggiore che fra Hamas e Israele. Se Hamas ha bisogno di qualcosa viene da noi. L’Egitto è contro Hamas, come gran parte dei paesi arabi, dall’Arabia Saudita ai paesi del Golfo. I soldi di Hamas arrivano dall’Iran, dal Qatar e da altri paesi. Queste manifestazioni al nostro confine sono organizzate da Hamas e dalla Jihad Islamica, non sono spontanee. Sono certo che molti a Gaza vorrebbero vivere in pace, ma non ci sono democrazia e diritti, non hanno scelta. I loro feriti vengono pagati da Hamas. I terroristi con queste manifestazioni vogliono risollevare la questione palestinese. Dal 2005 non c’è più un solo israeliano, civile o soldato, nella Striscia di Gaza. Hanno avuto la loro terra. Vogliono anche la nostra?”.
    Isaacson ci spiega quali minacce affrontino gli israeliani che vivono a un tiro di schioppo da quel reticolato sotto assedio. “Sedicimila civili risiedono nelle comunità al confine di Gaza. E queste persone ricevono molte minacce da Hamas. Si va dai tunnel, l’arma più sofisticata dei terroristi, li stiamo distruggendo ma ce ne sono molti che possono ancora usare, ai mortai che possono lanciare facilmente. Di questi missili Hamas si calcola che ne abbia diecimila e contro questi non funziona Iron Dome, il nostro sistema di difesa antimissile, perché siamo troppo vicini al confine. Abbiamo da cinque a quindici secondi per trovare riparo se suona l’allarme rosso. Così in questi anni abbiamo costruito novemila bunker antimissili per queste comunità che si trovano entro sette chilometri dal confine con Gaza. Anche nelle nostre scuole abbiamo i bunker. Adesso i palestinesi stanno bruciando i nostri campi e lanciano bombe artigianali sui nostri soldati e le nostre case”. Isaacson è fiero di essere in prima linea. “Tre comunità di cui coordino la sicurezza, Beeri, Gvulot e Nirim, furono costruite nel 1946, ovvero ancor prima della nascita dello stato di Israele. In una sola notte furono tirati su questi kibbutz. All’epoca c’erano gli inglesi al potere. E quei kibbutz sono ancora lì, oggi minacciati da Hamas. Nirim ha subito molti attacchi terroristici e ha avuto molti morti da parte degli egiziani e poi de fedayyin”. A Isaacson abbiamo anche chiesto cosa accadrebbe nel worst case scenario, ovvero nel caso in cui migliaia di palestinesi superassero il reticolato, l’esercito israeliano arretrasse e il confine cedesse.
    “Spero che non accada mai” ci spiega Isaacson. “Molti palestinesi verrebbero uccisi. E nessun israeliano vorrebbe più vivere qui. Per questo dobbiamo fermarli nel loro territorio. Il trauma sarebbe così profondo che niente in quest’area sarebbe più come prima. Ieri hanno cercato in più punti di distruggere il confine. Il 99 per cento dei palestinesi uccisi erano sul confine o erano entrati dentro a Israele di pochi metri”. L’esercito ha rivelato che otto terroristi di Hamas erano effettivamente entrati, che avevano aperto il fuoco contro i soldati, prima di essere eliminati.
    “Israele aveva lanciato volantini e aveva detto loro: ‘Non avvicinatevi, non superate il confine’” ci dice Isaacson. “Il confine è l’unico ostacolo che per noi separa la vita e la morte. Ma è così anche in Libano e in Siria, i kibbutz che si trovano lassù”. Nonostante i campi bruciati, i proclami del capo di Hamas Sinwar di voler “mangiare i fegati degli israeliani”, i tunnel e le infiltrazioni, nessun israeliano ha fatto la valigia. “Dall’ultima guerra nel 2014, la nostra popolazione è cresciuta del dieci per cento. Non ce ne andremo”.

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