IL POPOLO ITALIANO NON SEMBRA COMPOSTO DA ITALIANI

Le nubi che si addensano sul futuro dell’Italia mi rattristano come la previsione di un lutto. E sono sopraffatto dal rimpianto per ciò che la mia Patria poteva essere e non è. Se almeno fossimo un popolo di sciocchi, o di idealisti, capirei. Invece gli italiani, presi individualmente, poco ci manca perché siano prodotti di lusso. Certo non più dal punto di vista culturale, dati i mirabili risultati conseguiti dalla scuola “sessantottina”, ma dal punto di vista dell’intelligenza applicata, del “pensiero laterale”, della mancanza di pregiudizi, sono spesso eccezionali. Il popolo italiano somiglia ad un cesto nel quale si ammonticchino anelli d’oro, capolavori letterari, smeraldi, orologi da polso, miniature, banconote e cristalli veneziani, per alla fine accorgersi che è pieno di patate.
Le nostre qualità sono così evidenti che non val la pena di illustrarle. Soprattutto pensando che spesso si manifestano superando condizioni avverse. Il mistero da chiarire è quello del contrasto fra i nostri meriti individuali e i nostri immensi difetti in quanto collettività.
Premetto che i paragoni non possono essere fatti con Stati piccoli e privi di un grande passato. Nell’epoca attuale (e per questo non menziono l’Austria) l’Italia, per la sua storia e per le sue dimensioni, in Europa si può mettere a confronto soltanto con Spagna, Francia, Germania e Inghilterra. Tre su quattro di questi Stati, diversamente da noi, sono stati a lungo monarchie unitarie. Due cattolici e due protestanti, anche se la Germania non interamente e l’Inghilterra a modo suo. Infine tutti e quattro, dai tempi dell’Impero Romano, hanno avuto una storia in salita, nel senso che hanno avuto sempre più importanza, mentre l’Italia ha avuto una storia in discesa, fino all’insignificanza.
Il fatto di essere stata a lungo un Paese suddiviso in piccoli Stati, nessuno in grado di pesare seriamente in Europa, ha seminato nell’anima di noi italiani il Dna della dipendenza e della sconfitta. È triste doverlo dire, ma gli inglesi o i francesi trattengono a stento un sorriso, se gli si parla dell’esercito italiano. Se noi italiani siamo lungi dal sentirci dei guerrieri è perché la nostra storia è piena di sconfitte. E perché non abbiamo nessuna fiducia nei nostri capi. I francesi battevano immense coalizioni perché avevano una totale fiducia in Napoleone; i nostri soldati invece si sono sempre sentiti poco considerati, male armati e spendibili anche senza scopo. Così sono morti come gli altri, con in più il rischio di essere irrisi. Si pensi alla campagna dell’Africa Settentrionale, durante la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è che dal punto di vista del peso internazionale sentiamo di non contare nulla. Le esperienze, dal Risorgimento in poi, hanno soltanto confermato il peggio che pensiamo di noi.
Ma gli italiani, più ancora di sé stessi, disprezzano i loro governanti. Costoro non hanno mai avuto la statura dei grandi sovrani e sono stati troppo spesso pronti ad azzuffarsi fra loro. Magari chiamando poi in soccorso le potenze straniere, come se non fosse ovvio che alla fine ci avrebbe perso l’Italia.
Per l’italiano medio lo Stato è un’entità, se non nociva, senza importanza. Chi lo governa pensa innanzi tutto agli interessi della propria fazione, quando non al suo proprio. Ecco perché il cittadino non sente nessun obbligo di lealtà, nei suoi confronti. Persino l’evasione fiscale è considerata una forma di legittima difesa. Da noi l’individuo è in lotta contro l’intera collettività, in quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava Hobbes.
Riguardo a questa caratteristica italiana per contrasto val la pena di ricordare una teoria di Montesquieu. Nell’Esprit des Lois egli scrive che, mentre la molla fondamentale della dittatura è la paura, la molla fondamentale della monarchia è il senso dell’onore. I cittadini obbediscono al re perché il loro onore richiede che essi gli siano devoti e il re è anch’egli obbligato dal suo onore a non abusare del suo potere ed anzi ad agire per il bene del popolo. In Francia nessuno ha riso, leggendo questa tesi, come si sarebbe riso in Italia. Non per caso i francesi che non amavano François Mitterrand, per condannarlo senza appello, lo chiamavano “le Florentin”, il fiorentino.
In Italia lo Stato non è né stimato né amato. È soltanto un concorrente avido e sleale da cui guardarsi. In Sicilia, dove il governo è stato assente come protettore, e presente come esattore, si è vista con favore la Mafia perché, almeno, era “Cosa Nostra”, non “Cosa Loro”.
Al livello morale della nazione non è stata utile nemmeno la religione. Mentre nel Nord il Protestantesimo ridava vita all’etica del cittadino in quanto membro di una comunità (fino agli eccessi calvinisti della Svizzera) in Italia la Chiesa è rimasta ricca, ipocrita, perfino simoniaca. Il Papa somigliava troppo agli altri sovrani, e a volte in peggio. Così si è accentuata la divaricazione rispetto agli altri popoli. Il cittadino è rimasto credente, soltanto perché voleva salvarsi l’anima; ma non raramente ha accoppiato alla religione un acido anticlericalismo. Magari il parroco era una persona per bene, ma il cardinale? Uno che non si vergognava di autodefinirsi “principe della Chiesa”, confessando la sua natura di ambizioso, che esempio costituiva?
Come cittadini gli italiani si sono sempre sentiti orfani. Ottenuta la democrazia, hanno avuto dei governanti che provenivano dal popolo, per subito scoprire che ne avevano i vizi, non le qualità. A cominciare dal disinteresse per il bene comune. Così la situazione non rischia certo di cambiare in meglio. I politici, sapendo di essere a priori considerati immorali e non potendo contare su nessun ideale, cercano di conquistare il consenso promettendo vantaggi materiali e appena possono distribuiscono posti di lavoro fasulli (ma pagati con soldi veri), inventano sussidi e regalie, a costo di fare debiti e coltivano l’idea che si possa vivere a spese dello Stato. Persino la Costituzione ha fatto credere che si possa avere “diritto alla casa”, come se lo Stato potesse regalarne una ad ogni cittadino. Ma già, in materia di diritti non ci siamo fatto mancare nemmeno il “diritto al lavoro”. Il fatto che poi lo Stato deluda questi sogni non lo rende certo più amato.
Le case degli italiani sono linde e non raramente eleganti (lontana eredità del nostro Rinascimento) le strade italiane sono sporche e piene di buche. Gli italiani considerano la spesa per la difesa inutile perché, pensano, se c’è una guerra, o ci difende un possente alleato o noi la perdiamo. La scuola va male, ma tanto a che serve? L’essenziale, per avere un reddito assicurato, non è meritarlo, è avere le amicizie giuste. Soltanto i più forti si avventurano nella libera impresa ma sanno di avere tutti contro. Lo Stato li considera come nemici o, ad andar bene, come vacche da mungere.
La vita pubblica è di livello talmente basso che i politici cercano di avere successo coltivando i peggiori pregiudizi degli italiani. Per esempio, sposano l’assioma che chiunque sia ricco è tale perché ha saputo rubare, imbrogliare, intrallazzare meglio degli altri. Tanto che la cosa moralmente più giusta sarebbe impiccarlo a un lampione e dividersi i suoi beni. Né la Chiesa ha mai contraddetto queste idee, se nel Vangelo si sostiene che il ricco è uno che preferisce la propria corruzione alla salvezza dell’anima. È più facile che una gomena passi per la cruna di un ago che un ricco entri in Paradiso.
Noi abbiamo uno Stato che disprezza il merito e coltiva l’invidia. L’imprenditore dovrebbe lavorare sedici ore al giorno ma soltanto per creare posti di lavoro e guadagnare quanto i suoi operai. Se invece diviene ricco, è segno che ha rubato ed ha evaso le tasse. Cosa, quest’ultima, in buona parte vera perché lo Stato pone spesso l’imprenditore dinanzi all’alternativa di imbrogliare o fallire.
Gli italiani nel prossimo futuro potrebbero pagare a caro prezzo i difetti della loro collettività. Perché a titolo individuale sono eccellenti soggetti ma come popolo sono il peggio del peggio.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

30 aprile 2020

IL POPOLO ITALIANO NON SEMBRA COMPOSTO DA ITALIANIultima modifica: 2020-05-01T10:37:32+02:00da gianni.pardo
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4 pensieri su “IL POPOLO ITALIANO NON SEMBRA COMPOSTO DA ITALIANI

  1. Caro Ciro, qualcosa può fare il tempo. Ma in questo campo gira troppo lentamente perché si possa aspettare il risultato in piedi.
    G.P.

  2. L’insegnamento dell’estero
    L’addentrarsi e l’inserirsi all’estero dell’emigrato nella nuova società, con l’apprendimento di una nuova lingua e l’appropriazione di un nuovo universo di simboli, avvengono a tappe, per fasi, lentamente, con un processo anche doloroso, assai simile ad un’ascesi.
    L’estero è una scuola. No, non l’estero mitizzato così caro all’esterofilia italiana. Ma l’estero reale con le sue lezioni spesso dure. Quest’estero insegna agli emigrati che la Patria non è un’invenzione di retori, una costruzione ideologica imputabile ad una certa Italia d’anteguerra, ma una realtà dello spirito con le sue misteriose leggi alle quali la nostra anima non potrà mai dar scacco.
    L’Italia è una. L’estero insegna che non esistono, o non dovrebbero esistere, un’Italia del Nord e un’Italia del Sud, contrapposte. Noi all’estero siamo tutti considerati italiani “sic et simpliciter”, con tutti i clichés negativi che le razze più forti trovano gratificante affibbiarci. Hollywood docet…
    Una vita all’estero ci ha insegnato che onore e dignità nazionali, senso della storia, continuità, appartenenza, identità non sono vuote parole ma esigenze insopprimibili dello spirito. Il vivere a confronto costante con altri popoli aumenta l’importanza delle radici, amplifica il passato, dilata i ricordi.
    Una vita all’estero fa apparire grottesca l’ossessione ideologica da cui tanti italiani appaiono afflitti. Spesso, dottrinari all’estremo, essi si pongono al servizio della tessera di un partito, non accorgendosi di mancare di un senso elementare di coscienza e di solidarietà nazionali.

  3. Giacomo Leopardi scrisse che la società italiana manca di buone maniere (il “buon tono” anzi “il buon tuono”) ossia di quella cortesia formale, forse ipocrita ma lubrificante necessario affinché i rapporti tra individui, si affranchino dal puro calcolo egoistico, e dall’emotività o dal menefreghismo, assurgendo ad un livello superiore senza il quale le masse dei cosiddetti cittadini non riescono ad innalzarsi a “società”. Perché vi sia giustizia ed efficienza in una società occorre il culto del rispetto delle regole e la capacità di calarsi interamente nella funzione lavorativa che a ognuno di noi incombe. Occorre quindi che i rapporti tra individui, e specie quelli tra i “preposti”, con posto di lavoro e stipendio sicuro, e il pubblico da servire che spesso ha tante gatte da pelare, siano improntati a un vivere civile, in cui ognuno eserciti con serietà il proprio ruolo, la propria funzione, faccia insomma il proprio dovere, senza favoritismi e mostrando disponibilità allo sconosciuto che si ha di fronte. Occorre quindi lasciare a casa le ossessioni, le frustrazioni e gli isterismi del proprio Io. E non portarli invece con sé al lavoro, come tanti fanno da noi in Italia. Occorre, insomma, mettersi al servizio degli altri, anche perché si è pagati per farlo. Ma, nella penisola, per chi si sente un protagonista, e quasi tutti si sentono dei protagonisti, questo non è un compito facile da attuare. Purtroppo.

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