UN PONTE FRA LEGGENDE E BUGIE

La veloce ricostruzione del fu Ponte Morandi è stata ed è l’occasione di molti discorsi sconclusionati. Molti quasi non credevano che l’Italia fosse capace di costruire un ponte in un tempo così breve, mentre in generale, per lavori pubblici meno costosi e meno complessi, passano anni ed anni. Ma la tecnologia italiana non c’entra affatto. La nostra normale lentezza non dipende dalla tecnologia, dipende dalla burocrazia, dai mille controlli, dalle mille autorizzazioni, dalle mille vertenze, insomma dalle infinite procedure. Se le regole fossero diverse, tutte le opere potrebbero essere realizzate in poco tempo: ma è un “se” immenso.
Né ci possiamo meravigliare perché gli operai hanno lavorato – a quanto si dice – giorno e notte: per ottenerlo basta pagare di più. E forse le imprese se lo sono potuto consentire perché, in questo caso, lo Stato decide che cosa e a qual prezzo, e i Benetton pagano a piè di lista. Si immagini con quale gaudio questo genere di prospettiva è stato considerato dalle imprese straniere che facevano l’ipotesi di investire in Italia.
Il ponte è stato costruito velocemente perché è stato come se fossimo sulla Luna. Si è usata una regolamentazione inventata ad hoc. Stavolta – forse per motivi di populismo – nessuno ha osato mettersi di traverso. Nessuno ha presentato decine di denunce in Procura (che del resto, essendo la magistratura coinvolta nel processo ex ante, forse l’avrebbe cestinata). Nessuno è ricorso al Tar, nessuno è stato accusato di abuso d’ufficio, di turbativa d’asta, di collegamento con la mafia e di aver commesso la strage di Bologna. Chissà, quando si sarà posata la polvere, magari verrà fuori qualcuno con una denuncia che darà luogo, a babbo morto, a un interminabile processo. Ma per oggi, niente.
Chi parla di “modello Genova” deve chiedersi: si possono riprodurre altrove queste condizioni? Ovviamente sì. Basterebbe riformare i codici e le abitudini della magistratura. Basterebbe rendere impossibili le astuzie e le scorrettezze dei concorrenti agli appalti pubblici, le lentezze dei ministeri, quelle delle organizzazioni ambientaliste, dai protettori del paesaggio e chissà di quanta altra gente. Basterebbe raddrizzare le gambe ai cani.
Fra l’altro non è che a Genova si sia realizzata un’opera d’arte: malgrado la firma prestigiosa di Renzo Piano, quel ponte è peggio che brutto, è banale. Qualcuno lo ha definito “una riga da disegno sostenuta da matite verticali”. E questo quando invece il progetto di Calatrava era bellissimo. Ma perfino il vecchio Ponte Morandi era più audace.
Ma parliamone, di questo ponte che è crollato. Tutti si esprimono come se l’evento sia stato impensabile, innaturale, inammissibile. E invece nel 2018 il ponte era già “morto”, nel senso che il suo creatore non l’aveva progettato perché durasse fino a quella data. In eterno durano, terremoti permettendo, soltanto i ponti in pietra, come Ponte Milvio. Morandi l’aveva concepito per un tempo molto più breve. Insomma il ponte andava abbattuto anni fa. Il cemento armato è duttile e permette audacie costruttive, ma alla lunga l’armatura arrugginisce, si assottiglia e vi saluta. Che voi siate o no sul ponte.
“Ma allora perché non lo si è rifatto prima? dirà qualcuno. E comunque perché non lo si è sorvegliato meglio, sapendo che era ‘oltre la scadenza’? Nel dubbio, perché non lo si è chiuso? Si vuol forse negare che qualcuno è stato responsabile del crollo?”
Belle domande cui è facile rispondere. Non si è distrutto il ponte per rifarlo nuovo perché, per farlo, erano necessari molti soldi. Che l’Italia non ha. E quando li ha, non li spende per rifare i ponti. Inoltre, per questo lavoro, si sarebbe dovuto chiudere il ponte per un lustro o due (il tempo normale dei lavori pubblici in Italia) e i genovesi avrebbero cavato gli occhi alle autorità. Infine – last but not least – non è che il Ponte Morandi fosse l’unico in quelle condizioni: forse la maggioranza dei nostri ponti è “oltre la scadenza”, e quale governo si potrebbe sobbarcare l’onere di rifarli tutti? Ecco perché, quando sento parlare di “mettere in sicurezza” mi viene da ridere. Se un manufatto in cemento armato è molto vecchio l’unico modo di metterlo in sicurezza è eliminarlo.
Altro problema: chi era tenuto alla sorveglianza? In primo luogo la società concessionaria, ovviamente, ma, a pari titolo e a fortiori, il Ministero competente. Dico a fortiori perché per risparmiare la concessionaria potrebbe anche tendere a trascurare un po’ la sicurezza, ma il Ministero non caccia un soldo, ha soltanto il compito di sorvegliare ed eventualmente chiedere ad altri di spendere il necessario. Non ha scuse se sorveglia male.
E c’è di più. La sicurezza del Ponte Morandi era in discussione da molto tempo. Prova ne sia sul pilone ovest gli stralli erano stati raddoppiati, in modo da sostenere l’impalcato per così dire anche essendo inefficienti i vecchi stralli. E infatti quella parte del ponte è rimasta intatta, malgrado l’enorme trazione del resto del ponte che rovinava. E altrettanto si contava di fare, al più presto, con gli stralli del pilone centrale, e a questo scopo la società Autostrade aveva più volte sollecitato (con raccomandate) il Ministero ad autorizzare questa operazione. Purtroppo il Ministero neppure rispondeva. Prendere nota di quanto fosse sensibile alla sicurezza dei cittadini. Così infine la società ha programmato la riparazione per settembre, anche mancando l’assenso del Ministero. Ma il disastro si è avuto un mese prima. Ebbene, chi è il massimo responsabile del crollo del Ponte Morandi?
Ecco perché si può essere mortalmente stanchi di tutti i discorsi sul “modello Genova”. Troppa gente se la cava con la domanda: “Se si è fatto lì, perché non lo si fa nel resto dell’Italia?” Che è come chiedere a me: “Se uno scattista fa i cento metri in undici secondi, tu perché non fai altrettanto?”
Non solo l’impresa non può fare di meglio, ma vive in un mondo che le è ostile. E infatti non mi ha convinto la sentenza della Corte Costituzionale, quando ha negato l’incostituzionalità dell’esclusione della società Autostrade dalla ricostruzione del ponte, che le toccava per contratto. Attribuisco quel giudicato alla “carità di Patria”, cioè allo scopo di non sconfessare il governo fino a metterlo in crisi, ma questo gesto avrà un costo altissimo. Tutte le grandi società straniere sono avvertite: se succede qualcosa, i patti sottoscritti con lo Stato italiano sono carta straccia. E se uno si rivolge alla Corte Costituzionale, si vede dare torto anche dalla Corte Costituzionale. Tutto ciò nessuno lo dimenticherà. Soprattutto all’estero.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
7 agosto 2020

UN PONTE FRA LEGGENDE E BUGIEultima modifica: 2020-08-08T07:38:19+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “UN PONTE FRA LEGGENDE E BUGIE

  1. I tempi dell’Esposizione Universale di Roma, della via Balbia libica, delle infrastrutture etiopiche lodate dal Negus, sono lontani. Ed è già lontano di venti anni l’aeroporto internazionale di Dakovica, costruito in 52 giorni da 200 sottufficiali, con tutte le regole, malgrado …e taccio dei 20, poi, 15, poi, 11 cm di misto cementato, raddoppiati l’anno dopo. Era una prima volta. Fra gli italiani ci sono pochi leoni e tanti topi, ma se ai leoni si levano le briglie, ecco i risultati, malgrado i tramacci e i topi dei palazzi che Gianni Pardo mette in luce. Non ci sono giudicati per carità di Patria. C’è una Magistratura, autonoma e indipendente di fatto dalla politica che dipende da una parte della politica. C’è un C.S.M. che ne curerebbe la disciplina e che non viene sciolto dal suo e nostro Presidente. Ma il popolo italiano rimane bello da Nord a Sud. Dice l’antico detto napoletano: “O pisce puzza da la capa”. Loro lo sanno. Ripubblico questo bell’articolo.

  2. Condivido 100%.
    Purtroppo gli stessi argomenti sono applicabili a qualunque attività imprenditoriale. Il privato che cerchi di organizzare per guadagnare invece che perderci e rodersi il fegato è una rara eccezione; qualcuno molto in gamba può provarci scendendo a compromessi con la sua coscienza di persona onesta (il mio commento non è rilevante, non ha senso se includiamo i disonesti)

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