RIFLESSIONI SULL’IMMIGRAZIONE – 2

Il gattino sul palo
La prima risposta (soggetta a smentite) è che, per entrare e restare in Italia bisogna innanzi tutto mostrare dei documenti regolari all’arrivo, e poi essere rifugiati politici (dopo conforme sentenza della magistratura). E poiché molti dei possibili immigrati non sono affatto dei richiedenti asilo politico, ma soltanto persone che ambiscono ad una vita migliore, ecco che questa strada è preclusa. Infatti, non ottenendo asilo politico ed essendo chiaramente identificati, sarebbero subito rispediti a casa.
Allora ecco che le strade sono altre. Partendo dalla Libia (e non si capisce perché non dalla Tunisia o dall’Algeria) questi emigranti economici possono in primo luogo noleggiare, insieme ad altri, un piccolo natante, col quale arrivare sulle coste italiane. Il costo non è indifferente, perché il natante, all’arrivo, dovrà essere abbandonato. Senza contare il compenso per lo scafista, il quale rischia la galera, e comunque il pericolo di traversare un mare serio come il Mediterraneo con uno scafo di pochi metri, e per giunta sovraccarico. E tuttavia questo sistema offre due grandi vantaggi: se si arriva vivi sulle coste italiane, non si è obbligati a presentare dei documenti, perché spesso le forze dell’ordine italiane di questi sbarchi non hanno notizia. Poi, essendo comunque “non identificati”, non si saprebbe a quale Paese rispedirli. Gli si potrebbe magari dare un foglio di via, ma quelli lo butterebbero nella spazzatura e non se ne occuperebbero affatto. In questo modo sono entrati sul territorio italiano decine di migliaia di immigranti dal sud. Senza nessun possibile, serio controllo. Almeno con le leggi attuali.
La seconda strada è più comoda e meno costosa. Gli immigranti salgono su qualcosa che galleggi appena, per esempio un gommone sul quale si stipano in cento, si allontanano un po’ dalla costa libica ed ecco vengono raccolti da una piccola nave appartenente ad un’Organizzazione Non Governativa (o.n.g.) che li dichiara naufraghi e viene a depositarli in un porto italiano. Il sistema è collaudato, perché il galleggiante forse non esce nemmeno dalle acque territoriali libiche e le o.n.g. stanno lì apposta (se non in contatto telefonico con gli organizzatori – a pagamento – dell’emigrazione) per far finta di “salvarli”. Sistema che, negli ultimi anni, ha urtato un po’ contro le disposizioni del ministro Minniti prima, e Salvini poi. Ma è molto efficace.
E qui si apre la discussione sul salvataggio in mare.
Solo chi non si è mai allontanato più di un chilometro dalla costa, o l’ha fatto su una grande nave, ignora la paura del mare. Chi veleggia, anche soltanto per diporto, conosce lo scoramento di sapere che, dove si trova, se qualcosa va storto, nessuno gli può dare aiuto. Se soltanto cadiamo dalla barca mentre cerchiamo di sbrogliare una cima, c’è caso che la barca non riesca a fare marcia indietro velocemente, non ci trovi, e così passiamo in poco tempo da velista a cadavere di affogato. Insomma il dovere di salvare il naufrago è nato – da epoca immemorabile – da questo sentito dovere di solidarietà in mare. E ciò quale che sia il colore della sua pelle, la sua religione, e perfino la ragione stessa per la quale è in pericolo. Tutto nasce da questa comune e giustificatissima paura dei naviganti, contro la quale l’unica residua speranza è l’aiuto dei colleghi, cioè di chi la conosce.
Così, la cosiddetta “legge del mare” (che in fondo è soltanto una radicata consuetudine) impone di salvare chiunque sia in pericolo di vita in mare. Poi le leggi hanno aggiunto che bisogna depositare il naufrago in un porto sicuro. Precisazione che di primo acchito appare inutile. Sarebbe normale salvare qualcuno qui e rigettarlo in mare qualche miglio più lontano? Dove si può depositare qualcuno che si è raccolto, se non in un porto?
Ma in Europa e in Italia in particolare si è voluto dare a quell’espressione un senso preciso: per porto sicuro deve intendersi un porto in un Paese che assicuri le nostre libertà democratiche. Così si arriva all’assurdo che gente partita dalla Libia, Paese in cui si è recata volontariamente, non possa essere salvata riportandola in Libia. La Libia non è un porto sicuro. Ma se è per questo, non è neanche un Paese sicuro: e allora perché i futuri emigranti ci sono andati?
Dunque bisogna riprendere il problema dal principio, cioè dal concetto di “naufrago”. Il naufrago, come ci spiega l’etimologia, è qualcuno la cui nave si è rotta. “Superstite di un naufragio”, dice il dizionario, il naufragio essendo a sua volta un “Sinistro consistente nella perdita della nave, o nella sua riduzione a rottame o relitto inutilizzabile”. E – come si sa – un sinistro è un evento negativo imprevisto. Ma qui non c’è nessun imprevisto.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

2 di 4, Continua

RIFLESSIONI SULL’IMMIGRAZIONE – 2ultima modifica: 2019-09-05T07:49:46+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo