LO SCANDALO DEL MANCATO SCANDALO
L’articolo di oggi di Ernesto Galli Della Loggia è notevole non per il suo contenuto, noto a molti di noi, ma per il fatto che sia lecito esprimere idee simili, perfino sul principale quotidiano del paese. Un tempo nessun giornalista, nessun direttore avrebbero osato. Oggi, se c’è uno scandalo, almeno per chi è di sinistra, è che questo articolo non crei un enorme scandalo. Si è forse dimenticata l’esecrazione universale di cui fu fatto oggetto Indro Montanelli, solo perché il reprobo aveva l’ardire di proclamarsi anticomunista? Chi avrebbe avuto il coraggio di scrivere anni fa ciò che Galli Della Loggia scrive oggi?
Sul “Corriere” leggiamo che la sinistra e gli ex-comunisti non riescono a trovare una strada perché non hanno fatto i conti con il passato. Traduzione: perché non riescono a riconoscere le immense colpe del Pci. Hanno “un pensiero prigioniero di se stesso”. Non hanno “il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia appartenenza”. L’editorialista passa poi ad enumerare colpe e abbagli. Dopo oltre mezzo secolo di retorica resistenziale, stigmatizza l’assurdo della “memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democratica”. Il Pci è definito “un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese”. “Fu la presenza del Pci, scrive ancora senza vergogna, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’elemento decisivo che fece dell’Italia una democrazia diversa (nel male) da tutte le altre dell’Occidente”. C’è da rimanere tramortiti e ad ogni buon conto si rassicurino i lettori: dopo aver detto questo, Galli Della Loggia è ancora vivo e a piede libero.
“Effetti deleteri” definisce poi il politologo “le politiche di conquista del consenso sia a livello locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasione fiscale assolutamente generalizzata, la lottizzazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il moralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmediatiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Cavour, i «vaffa day» e così via, così via”. Bisognerà perdonare le molte citazioni: ma esse sono rese necessarie dall’incredulità che un riassunto potrebbe suscitare. Non è facile credere che qualcuno abbia condannato in blocco le iniziative di sinistra, i suoi principi e perfino la sua politica culturale di tanti decenni. C’è da sentirsi accapponare la pelle. E soprattutto vien da chiedersi: come mai prima si era trattati da pazzi, se si dicevano queste cose? Non è che per caso tutto questo grande coraggio dei commentatori dipenda dall’apparire la sinistra perdente e sdentata?
Comunque, dopo avere squalificato la sinistra degli ultimi sessant’anni, Galli Della Loggia squalifica anche la percezione che essa ha del presente: ha sempre sbagliato e continua a sbagliare. L’Italia, scrive, “forse, più che farsi «berlusconizzare» dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per essere ciò che voleva essere”. In altre parole, il Cavaliere ha capito l’Italia e la sinistra no. Il Cavaliere, non che essere l’anomalia di cui parlano in tanti, è il vero interprete della realtà, mentre il Pd si attarda in una visione ormai immaginaria di questo sfortunato Paese. Il Cavaliere è un grande politico e la sinistra – vittima di un tracoma ideologico – vaga cercando a tastoni la sua strada.
Questa è la tesi esposta oggi nell’articolo di fondo del Corriere della Sera. Sempre che fra poco non ci svegliamo e ci accorgiamo che è ora di andare al lavoro, sta piovendo e la realtà è del tutto diversa.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
15 aprile 2009
Ecco l’articolo di Ernesto Galli Della Loggia
l’identità incerta della sinistra d’oggi
Quell’Italia ancora schiava del passato
Un saggio di Schiavone sull’interminabile transizione rivela un’incapacità culturale e politica di autocritica
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Perché tanto il Pdl che il Pd appaiono organismi tuttora fragili e dall’incerto destino? Perché la transizione italiana ancora non accenna a finire? Perché non siamo ancora riusciti a dar vita a culture e forze politiche che appaiano realmente nuove e vitali? Vorrei provare a dare una risposta diversa da quelle che si danno di solito, una risposta che guarda al passato. La mia ipotesi è che non riusciamo a fondare nulla di nuovo perché non riusciamo a superare il passato. E non riusciamo a superarlo, vi siamo inconsapevolmente inchiodati, perché non siamo d’accordo su come sono andate le cose. La seconda Repubblica non può nascere perché ancora siamo divisi sia su che cosa è stata e perché è finita la prima, sia su che cosa è l’Italia che essa ci ha lasciato.
Questo disaccordo di fondo l’ho sentito in tutta la sua forza leggendo l’ultimo libro di Aldo Schiavone. Il libro cioè di uno storico di vaglia che come pochi contribuisce da anni in modo originale al discorso pubblico del Paese, e che con questa sua ultima fatica – L’Italia contesa (Laterza editore) – procede ad una ricognizione del presente italiano e dei suoi trascorsi. Ma lo fa – e questo è il punto decisivo -sforzandosi di essere comunque fedele ad un’appartenenza, intenzionato a non troncarne il filo che corre attraverso gli anni. E dunque non riuscendo a vedere le cose da una distanza sufficiente a pensarle con la necessaria dose di spregiudicata esattezza.
È, questa, una condizione che oggi riguarda in particolare tanti italiani che sono stati comunisti durante la prima Repubblica. Che lo sono stati molto spesso in modo intelligente e per nulla dogmatico — com’è appunto il caso di Schiavone, estromesso a suo tempo dalla direzione dell’Istituto Gramsci; che si sono allontanati del tutto da quel panorama ideologico, ma che, soprattutto a causa dell’avvento di una destra come quella incarnata da Berlusconi, si sentono nonostante tutto obbligati a dirsi, e a pensarsi, ancora «di sinistra». Quasi per forza d’inerzia, ma comunque abbastanza da essere spinti a figurarsi la realtà italiana presente e passata in modo da non disturbare troppo il loro precario accomodamento di oggi, anziché per ciò che essa è stata ed è realmente. Si tratta di un fenomeno importante ai fini del superamento del passato dal momento che finché le energie intellettuali e morali rappresentate da questa sinistra che fu, da questa sorta di pensiero prigioniero di se stesso, non si sbloccheranno, non avranno il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia appartenenza, fino ad allora la chiusura dei conti con il passato italiano non si potrà fare, il discorso politico non potrà ripartire, e dunque resteremo quello che siamo: un Paese fermo.
Il libro di Schiavone consente di vedere in modo nettissimo i due principali travisamenti storici (tali secondo chi scrive, beninteso) su cui è rimasto incagliato il punto di vista della sinistra che fu e che oggi mi pare piuttosto una «sinistra suo malgrado». Travisamenti che hanno una duplice funzione: da un lato quella di sollevare la sinistra (o per meglio dire il Partito comunista) dalla piena responsabilità della patologia politico-sociale che finì per distruggere la prima Repubblica; dall’altro servono a dipingere un panorama dell’Italia attuale tutto sommato ottimistico perché diviso sì tra «buoni» e «cattivi», ma con questi ultimi e il loro capo, Silvio Berlusconi, che sarebbero ormai vicini alla fine del loro predominio.
Innanzitutto il ruolo del Pci, dunque. Schiavone non vede, a mio giudizio, fino a che punto il «congelamento politico» del Paese dal ’48 in poi, la sua «sovranità limitata», la mancanza di alternanza, la memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democratica, fino a che punto ognuno di questi caratteri negativi, che egli per primo richiama con forza, sia da ricondurre direttamente e per intero a null’altro che alla presenza nel sistema politico italiano del Partito comunista. A proposito del quale egli non esita ad adoperare ancora l’indulgente categoria del «ritardo», categoria tipica dell’armamentario concettuale del dibattito comunista dell’epoca. Ma altro che di «ritardo » si è trattato! Ormai dovrebbe essere evidente che fu la stessa natura più intima, il carattere e la storia profonda di quell’organismo politico, che ne fecero un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese: non qualche casuale arresto, qualche fortuito inciampo (e che poi anche in quel partito ci fosse qualcosa o magari parecchio di buono, è ovvio: nella storia la negatività assoluta è rarissima).
Fu la presenza del Pci, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’elemento decisivo che fece dell’Italia una democrazia diversa (nel male) da tutte le altre dell’Occidente. Quando avvenne il crollo della coalizione di governo nel 1992-93 in seguito alle inchieste di «Mani pulite» fu per l’appunto questa anomalia assoluta del nostro sistema politico che impedì l’altrimenti ovvio passaggio di mano all’opposizione, determinando invece il collasso di tutto il sistema e il suo passaggio alla fragile novità in cui viviamo. Come si fa ancora oggi a non porre tale questione al centro dell’analisi? L’altro punto di disaccordo riguarda l’Italia post-Mani pulite, che Schiavone considera conquistata all’egemonia populista di Berlusconi, egemonia che ora però sarebbe ormai giunta al capolinea grazie alla crisi economica mondiale. Colpisce come solo a questo esaurimento, per così dire nei fatti, siano affidate in sostanza le possibilità di riscossa della sinistra, circa la cui futura azione politica e le relative risorse necessarie il libro non riesce a darci però la minima indicazione concreta.
La realtà è che in queste pagine il berlusconismo appare molto spesso un alibi per non vedere che cosa è oggi (ma non da oggi) la società italiana. La quale, forse, più che farsi «berlusconizzare » dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per essere ciò che voleva essere. Ciò che voleva continuare ad essere dopo la grande trasformazione antropologico-culturale degli anni Settanta e Ottanta. Ma ancora una volta, per evitare che la sinistra possa incorrere in una ulteriore, sgradevole, chiamata in correità e perdere così anche la sua presunta natura alternativa alla destra, Schiavone non vuol vedere – e infatti non cita neppure una volta – la parte attiva anche da essa avuta (o meglio avuta dai suoi immediati antenati, il Pci e la Dc dei «cattolici democratici») nel produrre la non entusiasmante realtà sociale italiana di oggi.
Così come neppure un cenno viene fatto agli effetti deleteri che pure sul popolo di sinistra hanno avuto, dagli anni Settanta in poi, mutandone radicalmente il profilo morale e culturale, le politiche di conquista del consenso sia a livello locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasione fiscale assolutamente generalizzata, la lottizzazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il moralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmediatiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Cavour, i «vaffa day» e così via, così via. Ma in questo modo svanisce di fatto l’Italia vera e profonda. Un’Italia che oggi può essere definita «contesa» solo guardandone la superficie, dal momento che in essa, in realtà, destra e sinistra appaiono avvinte (non da oggi!) l’una all’altra: un grigio Paese che una spenta politica, sia di destra che di sinistra, non ha la minima idea di come fare uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.