POROPRIN, POROPREN, POROPRAN

POROPRÌN, POROPRÈN, POROPRÀN
Come mai in Italia si conoscono così poco le lingue straniere? Come mai coloro che le parlano le parlano talmente male che a volte all’estero ci capiscono come noi comprendiamo gli stranieri delle barzellette?
Le ragioni di base sono due. I professori spesso non parlano le lingue che insegnano (tanto che se arriva un collega che parla fluentemente la lingua straniera lo guardano con stupore e reverenza) e gli alunni sono abituati a vedersi condonare gli errori di pronuncia. Dunque perseverano anche quando, divenuti giornalisti, parlano in televisione a milioni di spettatori.
Ed ora qualche esempio fra mille. Una caratteristica del francese è il fatto che la vocale “e” in fine di sillaba è muta o semimuta. Il venait, egli veniva, non si pronuncia “ilvenè” ma “ilvnè”. E poiché di “e” in fine di sillaba in francese ce n’è una quantità strabiliante, chiunque non ne tenga conto parlerà un francese disgustoso. In Italia, naturalmente, se neanche il professore conosce e soprattutto applica quella regola, il problema non si pone. Nemo dat quod non habet, dicevano gli Scolastici, nessuno può dare ciò che non ha. 2) Se invece dice costantemente, per rimanere all’esempio, “ilvnè”, e se – come è naturale – i ragazzi continuano a dire “ilvenè”, il professore ha la scelta fra dare sempre un’insufficienza a chiunque commetta questo errore (essendo criticato dagli alunni, dai loro genitori, dal preside e infine dai giornali, quando la notizia si diffonde) oppure rassegnarsi ed ammettere che esista un “francese scolastico italiano”. In questo idioma “ils sont” e “ils ont” sono pronunciati alla stessa maniera, “eu” è pronunziato “è” (Dieu = Diè”) ecc. Col risultato che si diceva prima.
Lo schema vale altrettanto bene ed anche meglio per la lingua inglese. Essa è oggi di gran lunga la più studiata ma, purtroppo, ha un sistema fonologico più lontano ancora dall’italiano. Una delle prime parole che i ragazzi incontrano, apprendendo (facendo finta di apprendere) quella lingua è la preposizione “of”. Vogliamo sperare che il professore li avverta che si legge “ov”, ma la suggestione di quella “f”, vista nei primi giorni, è tale che miriadi di alunni, di giornalisti, di italiani, leggono “of”, come se fosse la preposizione “off”. Con risultati comici: The Orchestra of London, annunciata in Italia, diviene “l’orchestra che opera lontano da Londra”.
Gli alunni non si rassegnano al fatto che quella lingua si pronuncia diversamente. Per questo parole come walker, stalking devono per forza pronunziarsi con la “l” e una parola come “emergency”, che si legge più o meno imeurgensi (con la “i” inglese di “this” la quale, a proposito, non è la stessa di “these”, e accento sull’“eu” francese), in Italia diviene una squillante e assurda “emergensi”. Lo stesso vale per “authority”, che ha la sfortuna di somigliare all’italiano “autorità” e infatti viene pronunciata da tutti indistintamente “autoriti”: una parola che gli inglesi non capirebbero, che non è italiana e che non serve a niente, dal momento che bastava dire “autorità”. E nascono le leggende. Per gli alunni, che poi diventano giornalisti e intellettuali, la “u” in inglese si legge sempre “a” mentre questo non è affatto vero, in particolare quando è seguita da “r”. E tuttavia siamo stati afflitti per anni da accenni ad un Richard “Barton” che non è mai esistito. Burton si legge più o meno “beurtn, con la stessa vocale di “er” in emergency. E, a proposito, Clinton non si legge Clinton con la “i” italiana e poi la “o”, ma “Clintn” con la “i” inglese e senza “o”. Non si finirebbe mai.
Il secondo ed ultimo corollario più divertente di questa geremiade è che in Italia non si disprezza chi pronuncia male, si considera snob chi pronuncia bene. In quel di Modena c’è un signore che ha molto viaggiato e parla bene l’inglese, anzi ne parla tre: l’inglese dell’Inghilterra, l’inglese degli Stati Uniti e l’inglese dell’Italia. Perché “tiene a non rendesi ridicolo”.
Inoltre per gli italiani esiste, come lingua straniera, solo l’inglese. Recentemente la capitale di Haiti è stata citata in televisione come poroprèn, poroprèns, poroprìn, poroprìns, poropràn, poropràns, portoprìn, portoprìns, portopràn, portopràns, portoprèn e perfino, ma solo in forza del libero gioco combinatorio, esattamente portoprèns. L’aeroporto di Parigi (quando va bene, quando va male è “areoporto”) si chiama Ciàrles Degòl (invece di Sciarldgol) la città spagnola di San Sebastián diviene San Sebástian, il povero Schumacher non riesce a scrollarsi di dosso l’accento sulla “a”, e quando poi è stata rubata l’insegna di Auschwitz, l’elementare scritta “Arbeit macht frei” è stata letta almeno in sedici modi diversi.
Contrariamente a quanto pensa Berlusconi, in Italia bisognerebbe smettere d’insegnare le lingue. Almeno nessuno, solo per averle studiate a scuola, si illuderebbe di conoscerle.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
12 febbraio 2010

POROPRIN, POROPREN, POROPRANultima modifica: 2010-02-12T10:33:22+01:00da gianni.pardo
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