FINI E LA PINTA DI FIELE

 

Normalmente, chi parla di morale in politica fa venire l’orticaria. Non perché sia un metro di giudizio vietato ma perché è estraneo alla politica quanto l’estetica per giudicare un motore. Si può avere un eccellente galantuomo pessimo politico ed un vero farabutto eccellente politico. Nel patto Ribbentrop-Molotov, il miglior politico è stato Hitler: egli infatti riuscì ad ingannare Stalin, che pure diffidava anche della propria ombra e l’avrebbe volentieri fatta uccidere nei sotterranei della Lubianka. In Italia, dopo il famoso “ribaltone”, Scalfaro invitò Berlusconi a “fare un passo indietro”, promettendogli le elezioni a breve e invece queste elezioni gliele fece aspettare un anno e mezzo, dando alla sinistra il tempo di riprendersi e vincere. Agì male? Moralmente sì ma politicamente no. L’ingenuo fu Berlusconi che si fidò di quell’impegno e imparò così a sue spese la triste lezione della politica. Infatti, nella primavera del 2008, quando in molti gli chiedevano un paio di mesi prima delle elezioni per cambiare la legge elettorale, mandò tutti al diavolo.
Tuttavia anche in politica la morale ha diritto di cittadinanza quando influenza i risultati desiderati. Gli antichi romani o i principi del Rinascimento potevano disinteressarsi dell’etica perché anche le loro azioni più turpi erano ignote ai più; oggi la televisione obbliga tutti a tenere in maggior conto i rapporti umani e a comportarsi in modo (almeno apparentemente) decente.
L’intelligenza di Massimo D’Alema e di Gianfranco Fini, come quella di Giuliano Ferrara, è un luogo comune. Ma se i due svettano su tanti altri, come mai la loro carriera non è andata oltre ciò che sappiamo? Questo è uno dei casi in cui il giudizio extra-politico spiega i limiti del successo raggiunto.
Ovviamente ambedue sono stati in primo piano per decenni ed hanno avuto alte cariche: ma rimane da capire come mai Massimo rimanga sempre un ottimate di cui ci si premura di riportare i pareri e cui vengono attribuite infinite trame nell’ombra, senza che sia mai divenuto, come Berlusconi, il personaggio più importante del suo partito. Non è strano che gli sia stato anteposto un inconsistente Dario Franceschini? Anche la sua famosa opposizione a Walter Veltroni dovrebbe umiliarlo, dal momento che il concorrente si è sempre segnalato per la sua incolore banalità. E non è neppure possibile dimenticare che non è mai stato presentato come candidato alla Presidenza del Consiglio: gli è stato preferito persino Francesco Rutelli, detto Cicciobello.
Una delle spiegazioni è forse che D’Alema non ha mai saputo farsi degli amici. La sua arroganza, il sarcasmo che profonde a piene mani finiscono con il fargli perdere gli eventuali sostenitori. Tutti gli vanno dietro per sfruttarne la scia ma gli voltano le spalle appena possono.
Le cose non sono andate diversamente per Fini. Miglior politico di D’Alema, Gianfranco ha saputo sì tenere strette in pugno sia le redini che la frusta del suo partito: ma in tutti questi decenni non si è fatto degli amici. Nessuno ha dimenticato ciò che nel 2005 dicevano di lui, nel bar “La Caffettiera”, La Russa, Gasparri e Matteoli. Un momento di malumore, il loro? Nient’affatto. E si è visto. Una volta che con il Pdl la sopravvivenza politica non è più stata legata al buon volere del Capo, la maggior parte dei suoi si è allontanata da lui. E quando lui, smaniando, ha chiesto sostegno per andare contro Berlusconi, si è ritrovato col classico cerino in mano: i suoi antichi colleghi sono con Berlusconi, un Capo non solo dispensatore di vantaggi, ma anche di cordialità e pacche sulle spalle.
Il Cavaliere infatti non è un angioletto (non sarebbe arrivato dove è arrivato, diversamente) ma si presenta come amico di tutti. Spende più sorrisi lui che una commessa di gioielleria. Perfino quando deve dire no, fa finta di dispiacersene. È il tipo di corridore che dice all’avversario battuto: “Oggi non eri in forma, ecco tutto”. Non umilia nessuno e ricorda sempre che, come narrano le favole antiche, un leone può avere bisogno di un topo. La storia versa questa lezione nella coppa di Fini come generose pinte di fiele.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
23 aprile 2010

FINI E LA PINTA DI FIELEultima modifica: 2010-04-23T11:20:00+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “FINI E LA PINTA DI FIELE

  1. Concordo con Gianni Pardo, pero’ la incapacita’ di farsi degli amici e rendersi gradevoli io la chiamerei stupidita’ emotiva. Anche nei rapporti umani ci vuole intelligenza, e forse Fini e D’Alema di questa non ne hanno granche’.
    Oltre a Berlusconi, prendiamo per esempio Fausto Bertinotti. Mi pare emotivamente intelligente: riesce a propugnare le sue idee senza offendere mai nessuno e ottenendo rispetto non solo dagli alleati, ma anche da chi, come me, non gradisce affatto la sua proposta politica.

  2. Ottimo esempio, quello di Bertinotti, cui non avevo pensato.
    In politica la sostanza è sempre spietata ma la forma può essere dolce, se è quella che “paga” di più.
    Tutto questo discorso mi ricorda una frase di Churchill che suonava più o meno così: quando dovete uccidere qualcuno, non costa nulla essere cortesi, con lui.

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