LA TEMPESTA MORALE

L’Italia è travolta da una tempesta di moralità. Non ci si occupa di ciò che di grave avviene nel mondo, non ci si occupa del bene del Paese, ci si occupa della punizione dei cattivi. Ogni giorno si ascoltano prediche contro la mafia, contro la criminalità e soprattutto contro la corruzione del mondo politico. Ciò che sta più a cuore alla nazione è sapere se il tale, sospettato di avere ricevuto una mazzetta, sia sì o no finito in galera e se nella pubblica amministrazione si vada ancora avanti a base di raccomandazioni o, peggio, con valigie di denaro contante. Tutto questo non può non suscitare stupore. Non che non bisogni curare l’influenza: è una malattia che costringe a letto e fa sentire veramente male. Ma è grave come un infarto? Certo che no.
Lascia soprattutto perplessi il fatto che la spinta morale di cui si parla non ha come molla il danno alla collettività, ma il male in senso morale. Se un ministro emana una disposizione che finisce col costare cento milioni di euro alla collettività, la cosa rientra nella discussione politica e non ottiene attenzione sui giornali; se invece quel ministro è sospettato di avere intascato un milione di denaro pubblico – dunque un centesimo del danno fatto con quella disposizione – i media non parlano d’altro e i moralisti ne chiedono insistentemente la testa.
Tutto questo è strano. Il governo della cosa pubblica non ha come primo dovere quello di dare l’esempio morale ma quello di favorire la collettività; o almeno di non danneggiarla. Per questo, come diceva Benedetto Croce (si raccomanda vivamente a chi non l’avesse ancora fatto di leggere questa pagina in nota), bisogna desiderare di avere governanti capaci, poco importa se modelli di virtù o di deboscia. Dal momento però che il filosofo è morto da molto tempo, rinverdiremo la sua teoria con un esempio concreto.
Negli Anni Settanta del secolo scorso l’Italia era comunista o paracomunista. Chi era anticomunista non osava confessarlo o, se lo faceva, era subito etichettato come fascista. Parlo per esperienza. Nel 1976 molti furono costretti a “turarsi il naso” e votare Dc perché, per la prima volta, si profilò la possibile fine del bipartitismo imperfetto con il sorpasso del Pci sulla Dc. Non andò così. Nel 1978 la mentalità però non era cambiata e qualcuno ebbe la bella idea di aiutare chi non possedeva una casa ad ottenerla in locazione a basso prezzo. Nacque così l’ “equo canone”. Questo stabiliva astrattamente quale dovesse essere la pigione (un assurdo, data l’estrema variabilità degli immobili) ed eliminava lo sconcio di qualcuno che, “ricco”, riceveva un canone immorale da un “povero”, il lavoratore.
La legge era assurda e presto si videro i guasti che provocava. Nessuno infatti costruì più immobili per darli in locazione; i proprietari vennero costretti o a ricavare un reddito inadeguato, o a vendere i loro appartamenti, o ad affittarli in nero, o a tenerli sfitti: infatti locando la casa la si regalava praticamente all’inquilino. Costui infatti, per costante giurisprudenza, era tale praticamente a vita.
Il canone, che avrebbe dovuto essere “equo”,  superava di poco imposte e spese e il proprietario era stato trasformato in amministratore di un bene pubblico. Tanto che lo Stato sentì il dovere morale di punire i proprietari di case vuote aumentando per esse le imposte. “Come, tenere sfitti gli appartamenti, mentre tanta gente ne ha bisogno?” Come se quelli lo facessero per capriccio. A volte, a parte ogni considerazione economica, lo facevano perché volevano che i figli potessero avere una casa, il giorno in cui si fossero sposati.
Il totale fu che il mercato delle locazioni si inaridì ed oggi l’ottanta per cento degli italiani vive in una casa di proprietà. Ma per avere una casa di proprietà sono necessari decenni di sacrifici, e questo è impossibile per i giovani. Con quale coraggio chiamarli dunque “bamboccioni”, come ha fatto l’ineffabile e più che benestante Padoa-Schioppa? Un giovane che guadagna mille euro al mese quale appartamento in locazione potrebbe mai trovare che gli consenta di vivere dopo aver pagato la pigione?
La legge in totale: 1) ha eliminato gli appartamenti in locazione; 2) ha tolto una sorgente di reddito a chi, risparmiando, s’era procurata una seconda casa; 3) ha impedito ai giovani di vivere da soli e spesso di sposarsi. Ecco dove ha condotto la legge voluta da alcuni “politici idealisti” che volevano punire i ricchi oziosi e favorire i poveri lavoratori. Non sarebbe stato meglio se, nell’ordine, avessero votato una legge ragionevole, avessero rubato un milione di euro a testa varando una legge ragionevole o infine avessero rubato un milione a testa e fossero andati a spassarsela, senza votare nessuna legge, piuttosto che fare questo enorme danno all’Italia?
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
8 giugno 2010
Benedetto Croce
Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della «onestà» nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia peraltro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica.
Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo. Tutt’al più, qualche volta, episodicamente, ha per breve tempo fatto salire al potere in quissimile di quelle elette compagnie, o ha messo a capo degli Stati uomini e da tutti amati e venerati per la loro probità e candidezza e ingegno scientifico e dottrina; ma subito poi li ha rovesciati, aggiungendo alle loro alte qualifiche quella, non so se del pari alta, d’inettitudine.
E’ strano (cioè, non è strano, quando si tengano presenti le spiegazioni psicologiche offerte di sopra) che laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatorie, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura.
«Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica» – si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze. «È questo soltanto? E non dovrà essere egli uomo, per ogni rispetto, incensurabile e stimabile? E la politica potrà essere esercitata da uomini in altri riguardi poco pregevoli?». Obiezione volgare, di quel tale volgo, descritto di sopra. Perché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo tenderanno in proprio in quelle sfere, ma non già nella politica. Colà lo condanneremo scienziato ignorante, uomo vizioso, cattivo marito, cattivo padre, e simili; a modo stesso che censuriamo, in un poeta giocatore e dissoluto e adultero, il giocatore, il dissoluto e l’adultero, ma non la sua poesia, che è la parte pura della sua anima, e quella in cui di volta in volta si redime.
Si narra del Fox dedito alla crapula e alle dissolutezze, che, poi che fu venuto in fama e grandezza di oratore parlamentare e di capopartito, tentò di mettere regola nella sua vita privata, di diventar morigerato, di astenersi dal frequentare cattivi luoghi; ed ecco che sentì illanguidirsi la vena, infiacchirsi l’energia lottatrice, e non ritrovò quelle forze se non quando tornò alle sue consuetudini.
Che cosa farci? Deplorare, tutt’al più, una così infelice costituzione fisiologica e psicologica, che per operare aveva bisogno di quegli eccitanti o di quegli sfoghi; ma con questo non si è detto nulla contro l’opera politica che il Fox compiè, e, se egli giovò al suo paese, l’Inghilterra ben gli fece largo nella politica, quantunque i padri di famiglia con pari prudenza gli avrebbero dovuto negare le loro figliuole in ispose.
«Ma no (si continuerà obiettando), noi non ci diamo pensiero solo di ciò, ossia della vita privata; ma di quella disonestà privata che corrompe la stessa opera politica, e fa che un uomo politicamente abile tradisca il suo partito o la sua patria; e per questo richiediamo che egli sia anche privatamente ossia integralmente onesto» – Senonché non si riflette che un uomo dotato di genio o capacità politica si lascia corrompere in ogni altra cosa, ma non in quella, perché in quella è la sua passione, il suo amore, la sua gloria, il fine sostanziale della sua vita. Allo stesso modo che il poeta, per vizioso e dissoluto che sia, se è poeta, transigerà su tutto ma non sulla poesia, e non si acconcerà a scrivere brutti versi. Il Mirabeau prendeva bensì danaro dalla corte, ma, servendosi del danaro per i suoi bisogni particolari, si serviva della corte, e insieme dell’Assemblea nazionale, per cercare di attuare in Francia la sua idea di una monarchia costituzionale di tipo inglese, di uno Stato non assolutistico e non demagogico. Vero è che questa disarmonia tra vita propriamente politica e la restante vita pratica non può spingersi tropp’oltre, perché, se non altro, la cattiva reputazione, prodotta dalla seconda, rioperando sulla prima, le frappone poi ostacoli, come il Mirabeau, sospirando, confessava, o l’ipocrisia morale degli avversari può valersene da un’arma avvelenata, come nel caso del Parnell. Ma questo è un altro discorso.
«E se, nonostante l’impulso del suo genio, nonostante l’amore per la propria arte, soggiacerà ai suoi cattivi istinti e farà cattiva politica?».
Allora, il presente discorso è finito, perché siamo rientrati nel caso in cui la disonestà coincide con la cattiva politica, con l’incapacità politica, da qualunque lontano motivo sia prodotta, virtuoso o vizioso, e in qualunque forma si presenti, cioè come incapacità abitudinaria e connaturata, o incapacità intermittente e accidentale. Può, altresì, il poeta geniale, talvolta, per compiacenza o a prezzo, comporre versi senza ispirazione e adulatori; senonché, in quel caso non è più poeta.

LA TEMPESTA MORALEultima modifica: 2010-06-09T12:28:32+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “LA TEMPESTA MORALE

  1. Sembra un mistero. Sembra che gli italiani siano pazzi, autolesionisti. Ma proviamo per un momento a fare un’ipotesi: che il motore ultimo di tutto questo sdegno non sia il desiderio di efficienza, ne’ l’idealismo, ma semplicemente l’invidia.
    Ecco che, almeno per me, si diradano le nebbie. Si spiega perche’ cominci a traballare il carisma dell’inflessibile Trattorista di Montenero: si scopre che e’ molto ricco.
    Si spiega l’accanimento furioso contro Berlusconi: e’ ricchissimo (e poco importa che questo ne faccia, logicamente, un piu’ improbabile candidato alla corruzione).
    Non so se qualcuno si ricorda come goffamente tento’ di scusarsi Baffino L’Odioso quando “Il Giornale” rivelo’ che viveva a Roma in una casa ad affitto agevolato. Disse piu’ o meno che lui versava al partito meta’ dei suoi emolumenti da parlamentare, come se questo facesse qualche differenza.
    Risposta stupida ? Niente affatto, lui parlava direttamente al cuore invidioso degli italiani, come se dicesse “Non ho diritto, vabbe’, ma guardate che sono MENO RICCO di quello che sembro”. E i moralisti lo perdonarono subito.

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