I GIOVANI: ALMENO SMETTIAMO D’IMBROGLIARLI

Per parlare del mondo visto dai giovani in teoria la cosa migliore sarebbe essere giovani. Purtroppo i giovani non hanno abbastanza esperienza e per così dire “occhi” per vedere la realtà. Inoltre, se li avessero, difficilmente avrebbero la tecnica per esprimere chiaramente il proprio pensiero. Dunque dei problemi dei giovani parlano i vecchi.
Un giovane è uno che ha da quattordici a trent’anni e più, e non ha un lavoro. La definizione è economica perché è l’economia che fa la differenza. Chi a ventiquattro anni, studia medicina, dipende dai genitori e non sa che cosa gli riserva la vita, è un giovane come il ragazzo di quindici anni che vorrebbe essere preso come apprendista da un meccanico.
L’inesperienza dei giovani è resa drammatica dall’ambiente materno della scuola. Il docente si chiede perché il profitto del tale ragazzo sia insufficiente, se può dargli qualche consiglio, se può aiutarlo in qualche modo. E nessuno se ne stupisce. Nessuno si accorge che questa è un’esperienza che non si ripeterà più. L’impresa normale cerca il proprio, non l’altrui profitto; vuole essere la beneficiaria della propria attività, non farne beneficiare altri. Solo l’elefantiaca impresa-scuola opera programmaticamente in perdita, si preoccupa del “profitto” di un terzo e gli chiede di accordarle l’onore di essergli utile.
Questo disorienta. Finché non escono dai banchi, scolari e studenti hanno la sensazione (coltivata dalla retorica corrente) che la società sia tutta interessata a rendergli la vita facile. Basta che loro facciano un po’ il loro dovere, arrivino ad un sei stiracchiato, e tutto andrà per il meglio. I genitori potrebbero anzi offrire un premio, un motorino o una play station. Invece, finita la scuola, non appena cercano un lavoro, la società li accoglie a muso duro: “Lasci il suo curriculum”; “Le faremo sapere”; “In questo momento il personale è al completo”; e soprattutto pone la terribile domanda: “Che cosa sa fare?” Inutile rispondere citando le guerre puniche o il concetto della natura in Leopardi, ammesso che i giovani conoscano questi argomenti: la scuola non ha insegnato niente che serva, ora. È il momento in cui il laureato in scienze politiche guarda con invidia l’elettricista: ha le mani callose, è vestito senza eleganza, ma è aspettato come il Messia nelle case in cui va.
La prima ragione di scoramento nasce dal fatto che nulla prepara i giovani alla realtà degli adulti e alle sue durezze: è un’amara sorpresa che il resto dell’esistenza saprà solo confermare.  Prima studiavano distrattamente, ora, se vogliono vincere un concorso, magari per fare l’ingloriosa vita dell’impiegato, devono applicarsi con ben altra serietà. Prima genitori e canuti docenti sembravano al loro servizio, ora la segretaria troppo truccata che li accoglie dietro la sua scrivania ha su di loro l’infinita superiorità di chi un lavoro l’ha già. E se infine sono ammessi all’augusta presenza del boss, un ometto occhialuto, panciuto e calvo, sanno che devono inchinarsi a chi può dire di sì o di no. E probabilmente dirà di no.
I romani attribuivano lo status di maggiorenne a chi, pur senza aver raggiunto una certa età, si sposava: infatti, dovendo sopravvivere con i propri mezzi, la responsabilità di una famiglia fa immediatamente maturare.
Non si può fare molto, per i giovani. Non gli si può inventare un lavoro. Non gli si può dare uno stipendio solo perché hanno studiato: ma si potrebbe almeno smetterla con la retorica? Già non li aiutiamo: perché illuderli?
Bisognerebbe farlo sapere, in giro, che la vita è estremamente dura. Il problema non è quale automobile scegliere, come vorrebbe farci credere la pubblicità: è trovare lavoro. Bisogna essere disposti a sporcarsi le mani (non esistono solo lavori da fare in giacca e cravatta), a trasferirsi, a fare la gavetta da precari, a vivere da pendolari, a fare mille conti per arrivare alla fine del mese. E queste prodezze non commuovono nessuno. Il datore di lavoro è qualcuno che vuole guadagnare sulla nostra fatica, non qualcuno che ci dirà grazie se avremo “fatto del nostro meglio”. Come direbbero gli anglosassoni: “your best is not enogh”, il meglio non basta.
Con la fine della scuola, si passa da adolescenti a disoccupati.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
22 gennaio 2011
P.S. Sono uscito dall’esame di laurea annunciando giulivo agli amici e ai parenti: “Ed eccomi disoccupato!” Non avevo ancora ventitré anni.

I GIOVANI: ALMENO SMETTIAMO D’IMBROGLIARLIultima modifica: 2011-01-24T10:00:11+01:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “I GIOVANI: ALMENO SMETTIAMO D’IMBROGLIARLI

  1. Verissimo quello che scrive Pardo!
    Un altro modo per prendere in giro i giovani sono i “lavori socialmente utili”. Lo scrivo tra virgolette perche’ l’infermiera, il netturbino, la babysitter e il carabiniere sono lavori socialmente utili, e vengono regolarmente pagati. Non producono profitti all’industria, producono servizi indispensabili, e se c’e’ chi ci campa per tutta la vita e ottiene anche la pensione.
    Cosa hanno di sbagliato quelli tra virgolette ? Che sono giustificazioni politiche-morali per dare assistenza caritatevole a chi forse, invece, potrebbe fare davvero un lavoro socialmente utile.
    Non che sia sbagliato dare assistenza caritatevole a chi non puo’ farne a meno, ma sarebbe bello chiamare le cose con il loro nome e non ingannare nessuno.

  2. Ma perchè dobbiamo dire ai giovani di studiare e impegnarsi? Loro già hanno imparato che se sono belle ragazze nn conta il titolo di studio e la competenza, ma l’avvenenza.

    Non contano le qualità e le capacità, ma solo essere servili con il capo.

    Per tutti gli altri c’è il grande fratello.

    E chi è il profeta di questa nuova cultura? Chi primo fra tutti dà questo esempio? Mha???

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