IL LAVORO, MEZZO O SCOPO

“La gente lavora per procurarsi da vivere”, si dice. In realtà questa spiegazione non sempre vale. Se si lavorasse per vivere, sarebbe normale smettere quando si fosse sicuri di non averne bisogno: invece nella maggior parte dei casi ciò non avviene. La necessità è solo una delle ragioni per le quali si opera. Magari la più frequente, certo non l’unica.
È come per l’atti­vità sessuale: la natura l’ha previ­sta solo per la continuazione della specie ma essa ha dato luogo all’amore e ad una relazione uomo-donna ben più complessa. Il rapporto del lavoro con la sopravvivenza nei Paesi sviluppati ha perduto la sua immediatezza. Vi sono giovani di trent’anni che frequentano corsi di specializzazione in medicina; disoccu­pati che vanno avanti con i sussidi; diplomati in attesa di primo impiego che dipendono in tutto dai genitori. Il collegamento con la sopravvivenza non è più, come per gli uccelli, una questione di giorni: si possono aspettare anche anni, prima di essere autosufficienti. Nella nostra società c’è anche chi consuma molto e non produce nulla, come c’è chi produce moltissimo e consuma pochissimo.
Si lavora per necessità ma anche per un mucchio di altre ragioni. Perché è un dovere; perché altrimenti sarebbe stato inutile imparare un mestiere; per non pesare ulteriormente sui genitori; perché è un’attività interessante; perché ci permette di vedere gente, di viaggiare, di sentirci importanti e per mille altre ragioni. Il rapporto con la sopravvivenza è divenuto sfumato come il rapporto fra matrimonio e prole.
La stessa retribuzione non è necessariamente la cosa più importante. C’è chi si impegna molto di più per il piacere del successo che per il denaro e, al momento di ritirarsi, molti preferireb­bero continuare, anche a costo di guada­gnare l’equivalente della pensione.
Tolto il semplice bisogno (che è la prima molla) si può desiderare di lavorare per altre ragioni. La prima potrebbe essere il condizionamento. Si sente parlare di lavoro dalla più tenera infanzia. Papà torna dal lavoro, lo zio cerca lavoro, il vicino ha perso il suo lavoro, tutti lavorano. Come mai quel signore non lavora? Se si tratta di un ricco lo si invidia o lo si condanna; se si tratta di un povero lo si consi­dera uno spostato o un parassita. Conoscendo una persona una delle prime cose che gli si chiedono è: che fa, nella vita? Perché quella è l’unica at­tività importante. E chi non l’esercita, “non fa niente”: quand’anche componesse la Divina Commedia.
Il dovere di operare – riflesso soggettivo di quel condizionamento – è seminato in una regione tanto profonda dell’io che si trasforma in pulsione e – come l’istinto – non tiene conto del proprio scopo- A volte sembra sganciarsi dalla retribuzione: il capo d’impresa non conosce orari e fa pensare ad un uomo che tiri su un secchio d’acqua, ne beva un sorso e getti il resto per terra; e poi tiri su un altro secchio, e faccia la stessa cosa, e poi un altro secchio, e un altro ancora. Una sorta di Sisifo per nulla mitolo­gico: ci sono milioni di uomini di successo.
Essendo coscienti della plateale assurdità della loro vita, i grandi produttori di reddito cercano scuse. Accampano le necessità della famiglia, ma i figli potrebbero fare a meno dell’auto sportiva. Sono stati in ufficio fino alle undici di sera per non far sfuggire un affare conve­nientissimo ma dell’af­fare convenientissimo non hanno nessun bisogno. Anzi, farebbero bene a spendere i soldi guadagnati con l’affare prece­dente. Come per il pokerista, il guadagno per il tycoon è solo la misura del suo successo. E infatti spesso è tanto personalmente sobrio quanto generoso con gli altri.
Stupefacente è tuttavia che siano legati al lavoro anche milioni di persone che hanno compiti umili, ripetitivi, puramente esecuti­vi. Forse perché non ne esiste alcuno che non offra nessuna soddisfazione. Come minimo c’è quella di averlo finito: la dattilografa che guarda il mucchio di fogli battuti è contenta di sé, anche se c’è un altro lungo documento da battere sul tavolo. E in fabbrica c’è il piacere di sentire la sirena di uscita. La gente riesce anche a trovare un lato creativo del suo mestiere là dove l’artista o il magnate non l’immaginerebbero mai: nel modo come si riflette la luce sul pavimento che si è appena lavato; nel dimostrare al cliente come il guasto del motore sia stato perfet­tamente riparato o nell’avere venduto un brutto vestito a una cliente difficile.
Avviene anche che la professione sia l’unica fonte di au­tostima. Un uomo può amare le ore che passa alla scrivania perché lì è “il signor capoufficio”, mentre a casa è “quel cretino di mio marito”. E questo non vale solo per i dirigenti. Anche un uomo sciocco viene trattato con rispetto dal cliente, se è un meccanico: egli ha infatti, nei confronti del cliente, l’inavvicinabile competenza del medico.
La spe­cializzazione dà potere. L’usciere che può sentenziare: “Per questo deve andare al piano di sopra, stanza ventotto” prova un confortante senso di superiorità. Il cittadino in piedi dinanzi a lui sarà forse un primario ospedaliero ma lui sa a quale stanza bisogna andare.
Chi non lavora solo per vivere dovrebbe porsi delle domande. Naturale è che si voglia passeggiare nei boschi, visitare paesi lontani, fare l’amore e gustare capolavori d’arte. Se invece, potendo scegliere, si produce invece di vivere, si scambia il mezzo con lo scopo.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, pardonuovo.myblog.it
15 maggio 2011

IL LAVORO, MEZZO O SCOPOultima modifica: 2011-05-15T19:31:00+02:00da gianni.pardo
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