RICORDO IL PRIMO SANREMO

Il vantaggio di essere vecchi è che una parte della storia, invece d’averla studiata, uno l’ha vissuta. E c’è dunque chi, come me, il primo Festival di Sanremo – quello presentato dal mielato Nunzio Filogamo, quello di Nilla Pizzi e di “Grazie dei fior” – lo ha ascoltato e lo ricorda ancora.

Ero studente di liceo e facevo i compiti sul tavolo da pranzo, dopo che i miei erano andati a letto, per la buona ragione che, come sempre, studiavo “nei ritagli di tempo”. O quando non potevo più rinviare: perché la mattina andavo a scuola, il pomeriggio uscivo con gli amici e le ore dello studio non erano previste. 

Naturalmente, il quadro era sempre lo stesso. La stanza, nel silenzio e nella povertà di quei tempi, non era riscaldata e faceva un freddo cane. Il tempo era limitato e dovevo sfruttare la mia grande memoria e il mio amore per le lingue (allora dedicato al latino e al greco) obbligandomi ad una concentrazione fenomenale. Ciò malgrado rimaneva spazio per la musica, un amore che allora comprendeva ancora quella leggera.

Fu così, che fra un autore di filosofia e una traduzione da Virgilio, un esercizio di matematica (oh, Dio!) e una pagina di storia della letteratura, la radio, lasciata quasi distrattamente accesa e a basso volume, per non disturbare, mi offrì quel festival di cui non avevo nemmeno sentito parlare.

L’impressione era quella di sempre: le canzoni italiane avevano un linguaggio da filastrocca per bambini, anche perché ancora bloccate sul pregiudizio che tutte le parole dovessero finire accentate – ed ecco il diluvio di amor, saprò, chissà, per te, perché, e naturalmente “fior” –  e grondavano un sentimentalismo d’accatto. Anche all’età in cui avrei dovuto prenderlo sul serio, ne ero profondamente infastidito. Tutti i cantanti, quando non intonavano inni alla mamma, si esibivano con sofferta passione e raccontavano le pene di cuori sensibili e feriti. Un oceano di giulebbe da rendere diabetico un anoressico.

C’era tuttavia qualcosa di umile, di gradevole e, soprattutto, di casalingo, in quella sagra radiofonica. Le canzoni erano ingenue, il quadro semplicissimo e lo stesso fatto che alla fine si stilasse una classifica conservava un vago e sorridente sapore di gioco in famiglia. Insomma, sera dopo sera, se pure distrattamente e impegnato in altro, ascoltai quello spettacolo radiofonico con piacere.

Non avrei mai immaginato che col tempo le nostre strade si sarebbero così brutalmente divaricate. Da un lato io divenivo sempre più insofferente per la musica leggera popolare (non considero musica leggera popolare le operette, i grandi musical e, a fortiori, i valzer di Strauss) al punto da arrivare oggi a scappare da una pizzeria, se c’è quella che loro chiamano “musica”; e che io considero un sintomo di regressione a livelli neanderthaliani. Dall’altro, il festival di Sanremo trasmigrava in televisione, diveniva sempre più importante, sempre più internazionale, sempre più elefantiaco, sempre più insopportabile. Tanto che da molti decenni ne ho notizie solo attraverso i giornali.

Le mie idiosincrasie naturalmente non contano nulla e ognuno ha diritto ai propri gusti. Ma a favore della mia severità di giudizio c’è il fatto che la decadenza della musica leggera popolare è un fatto mondiale. Da molto tempo non nascono – o nascono rarissimamente – quelle canzoni che gli americani decorano col titolo di “standard”, che poi hanno mille versioni e che sono cantate quasi per obbligo da tutti i miti internazionali, come si vede aprendo youtube. Smoke gets in your eyes, per esempio. Blue Moon. Les feuilles mortes. Stardust. Imagine. Per il passato non si finirebbe mai, per l’epoca recente si stenta a trovare qualcosa.

Ed ecco che il festival di Sanremo, per quel che ne leggo, non riuscendo più ad avere un successo musicale, si contenta del fasto della scenografia, del baccano mediatico e, infine, del succès de scandale di Celentano. Personaggio che non viene aggettivato per evitare guai.

Addirittura uno potrebbe anche vergognarsi di avere seguito quella prima puntata: non fosse che non bisogna mai rinnegare il proprio passato, come non bisogna cedere alla tentazione di pensare di essere nati già adulti e smagati. Bisogna lasciare quel festival lontano nel tempo inserito nella nicchia dei ricordi, in quel momento, tra l’adolescenza e la giovinezza, che tanto si mitizza e in cui molti, come me, hanno più sofferto che gioito.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, 16 febbraio 2012

 
RICORDO IL PRIMO SANREMOultima modifica: 2012-02-16T14:43:18+01:00da gianni.pardo
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