LA CONSULTA E LA POLITICA

 

C’è un concetto che è stato ripetuto tante volte che al solo pensare di parlarne ancora si è un po’ disgustati. E tuttavia bisognerebbe stamparne una copia e affiggerla ad ogni cantonata, obbligando gli italiani – che sono quelli che ne hanno più bisogno – ad imparare questo principio a memoria. Si tratta della differenza fra politica e tecnica e politica e diritto.

Per la tecnica – trattandosi di un argomento trattato troppe volte – basterà dire che la politica opera delle scelte e che queste scelte non sono tecniche ma, appunto, politiche. Non si tratta di optare fra una cosa giusta e una cosa sbagliata, ma fra due cose giuste, che tuttavia non si possono fare entrambe.

La differenza fra politica e diritto, invece, è molto più complessa e alcune diversità sono sufficienti a porli su piani diversi, al limite non comunicanti. Il diritto si occupa di fatti avvenuti, la politica si occupa di futuro. Il diritto è fisso e immutabile, la politica è flessibile. Il diritto è stato definito “il minimo etico” (cioè la garanzia di un minimo di moralità sociale), la politica in sé è amorale. E si potrebbe continuare. Ma ora la Corte Costituzionale ha dichiarato anticostituzionale la legge elettorale firmata da Calderoli, ed è il caso di sottolineare un’altra differenza: il diritto non si occupa delle conseguenze, perfino quanto queste sono evidentemente ingiuste, la politica si occupa soprattutto di esse.

Qualcuno forse sobbalza, leggendo che l’applicazione del diritto può essere “evidentemente ingiusta”, ma è facilissimo dimostrarlo. Come si sa, gli imprenditori che hanno firmato contratti con lo Stato sono pagati con mesi e anni di ritardo. Mancando di questo denaro, qualcuno di loro non ha potuto far fronte ai debiti della propria impresa ed il giudice, sollecitato dai creditori, lo ha giudicato fallito. Moralmente il magistrato ha rovinato un galantuomo, ha fatto chiudere un’impresa, ha fatto perdere il lavoro ai suoi dipendenti, mentre il colpevole è uno Stato abbastanza grosso per resistere indefinitamente e abbastanza potente per non essere mai punito per le sue malefatte. Ma il giudice applica la legge senza chiedersi quali saranno le conseguenze: è questo il suo dovere.

La politica al contrario segue ben altri parametri. Quando uno Stato firma un trattato, la sua onorabilità e i principi del diritto internazionale lo obbligano a mantener fede ai patti. Tuttavia, venuto il momento, se i governanti si accorgono che le conseguenze sarebbero negative, si può star certi che preferiranno essere spergiuri che passare alla storia come politici che hanno fatto del male alla loro Patria. Le scelte operate dal governo e dalla sua maggioranza non mirano ad astratte geometrie, all’obbedienza ad eroiche virtù o all’applicazione di aurei principi: sono un continuo bilanciamento fra diversi interessi, nella speranza di fare al Paese il massimo di bene col minimo di male. E del resto è questo il metro col quale gli elettori misurano i politici: non importa con quanta onestà, con quanta buona fede abbiano agito, se le conseguenze della loro azione sono negative, l’elettorato li condanna. E per far buon peso, li condanna anche quando sono del tutto incolpevoli di ciò che è avvenuto.

Come ci ha spiegato Montesquieu, ci sono motivi precisamente politici, per la separazione dei poteri: ma c’è anche questa considerazione relativa al diverso atteggiamento rispetto alle conseguenze della propria azione. Per la magistratura la parola “opportunità di una decisione” deve essere anatema, per la politica essa è una regola inderogabile.

Oggi abbiamo sotto gli occhi un episodio esemplare, di tutto ciò. La Corte Costituzionale è stata improvvidamente investita del problema – molto più che opinabile – della costituzionalità della legge elettorale da un Paese che, non fidandosi (a ragione) dei politici, si fida (a torto) dei magistrati. E questi magistrati, mentre decidendo in buona fede hanno fatto il proprio dovere, sostanzialmente hanno sbagliato due volte: in primo luogo perché hanno deciso col diritto una materia che soltanto la politica può decidere, in secondo luogo perché ciò hanno fatto senza badare alle conseguenze. Quelle conseguenze, sicure, probabili, possibili, improbabili, di cui tutti i giornali, preoccupati e allarmati, sono pieni. E si tenga presente che poi non si verificheranno con certezza soltanto le conseguenze sicure e qualcuna di quelle probabili, ma potrebbero anche verificarsi quelle improbabili, perché la politica, una volta che è chiamata a decidere, non segue certo gli stessi scopi dei magistrati quando scrivono dei dispositivi: segue in primo luogo i propri interessi e il proprio programma.

Siamo nei guai, ma non in guai immeritati. Viviamo le conseguenze della mentalità nazionale, la quale è convinta che la politica si possa fare con i codici.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

7 dicembre 2013

 

 

LA CONSULTA E LA POLITICAultima modifica: 2013-12-08T08:55:09+01:00da gianni.pardo
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