L’INARRESTABILE EMIGRAZIONE DALL’AFRICA

La sua vera ragione è una contraddizione culturale di fondo

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C’è qualcosa di stupefacente, nell’inarrestabile emigrazione di musulmani disperati dall’Africa all’Europa. A sentire i proclami ufficiali – e non parliamo di quelli degli estremisti – esiste un fanatico orgoglio islamico, un’intransigente rivendicazione dei propri valori, proclamati incontestabilmente superiori a quelli dell’immorale Occidente. Tanto che il programma vagheggiato è piuttosto quello di estendere il califfato all’Europa che quello di adottarne i valori e lo stile di vita. In alcuni Paesi la conversione al Cristianesimo è addirittura sanzionata con la morte.

Questa è la versione ufficiale. Viceversa gli abitanti di Lampedusa hanno sotto gli occhi quella non ufficiale: quel flusso inarrestabile di persone che rischiano concretamente la vita per cercare d’avere, proprio in quell’Europa stramaledetta, il posto degli ultimi. Evidentemente questo continente appare come un Eldorado, rispetto alla realtà da cui provengono. Con le parole glorificano il mondo islamico, con i piedi votano per la prosperità occidentale.

E tuttavia non bisogna confondere i diversi piani. I nuovi arrivati rimangono buoni musulmani. Ché anzi è questo  che li rende inassimilabili. La loro emigrazione non è né su base religiosa né su base politica, malgrado le loro strumentali richieste di asilo politico: è esclusivamente economica. Essi non fuggono dall’arretratezza culturale e civile dei loro Paesi, corrono verso un supposto paradiso di prosperità nel quale cercheranno di integrarsi, anche se col ruolo di ultimi.

Qui si pone il quesito fondamentale: dal momento che il modello economico occidentale è tanto desiderato, perché non importare questo modo di produrre ricchezza piuttosto che esportare gli esseri umani? L’idea non è azzardata. Lo dimostra la sua adozione da parte di popoli asiatici come la Corea del Sud, la Malesia ed oggi perfino il Vietnam, nazione che pure, contro l’Occidente, ha combattuto una famosa guerra. Che cosa impedisce ai Paesi islamici del bacino del Mediterraneo, o a quelli del Corno d’Africa, di fare altrettanto?

Un primo limite – non è il più importante, ma certo non è irrilevante – è l’ignoranza. Non si improvvisa una degna Amministrazione statale, non si crea facilmente una classe imprenditoriale in un Paese come il Sudan. È vero che questo ostacolo potrebbe essere superato con l’aiuto di “consiglieri” esperti occidentali ed in effetti in passato l’esperimento fu tentato. Le missioni, spesso nel nome dell’Onu, applicavano il principio per il quale “chi ti dà un pesce ti nutre per un giorno, chi ti insegna a pescare ti nutre per tutta la vita”. Ma l’esperienza dimostrò che quei popoli non volevano imparare a pescare. Da un lato, vedendo un bianco, speravano non di avere l’occasione di lavorare ma di avere tutto gratis (i famosi “aiuti”). Poi la propaganda ufficiale continuava a parlare di infiltrazione dell’Occidente immorale, di neocolonialismo economico, di materialismo irreligioso, e finiva che tutto tornava come prima.

I dirigenti e i pochi ricchi certo non hanno fame e non mancano dei vantaggi economici occidentali. Dunque, almeno pubblicamente, rimangono fedeli alla dottrina più retriva. Il popolo minuto invece geme nella miseria oppure tenta di ottenere, pagando e rischiando la vita, lo status di paria nella vituperata Europa.

E tuttavia questa non era e non è la soluzione. Infatti i discendenti di questi disperati, una volta che si siano integrati economicamente, dopo una generazione o due pretendono di distruggere il modello tanto bramato dai loro nonni. Come si è visto in Francia, per esempio con la rivoluzione delle banlieues, e in Inghilterra e in Spagna con gli attentati alla Metropolitana.

Il problema degli emigranti dunque non è la miseria, è la mentalità. Come religione l’Islàm è rispettabilissimo. Purtroppo le sue conseguenze sociali – a cominciare dalla condizione della donna, spesso fondata più su pregiudizi religiosi che su prescrizioni coraniche – sono devastanti. L’imam predica l’abbandono a Dio, ma il credente è poi deluso dal fatto che Dio non gli faccia avere lo smartphone. I popoli di quell’area geografica da un lato desiderano la prosperità del’Occidente, dall’altro continuano a rifiutare la mentalità che è all’origine della sua ricchezza. E quando dei militari progressisti (in Turchia sin dagli Anni Venti del Novecento, poi in Algeria, in Egitto) cercano di imporre loro il progresso e una società laica, appena possono votano per i fanatici islamici. Si è visto in tutti e tre quei Paesi.

È inevitabile sentire una grande pietà per questi poveri emigranti, e ciò malgrado bisognerebbe impedire loro l’ingresso in Europa. Anche se la fame li ha spinti ad affrontare il rischio del mare, non per questo cambiano una mentalità incompatibile con l’Occidente. Un movimento come il Front National, in Francia, dimostra quanto questo grande Paese si sia pentito d’avere aperto la porta al Maghreb.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

13 maggio 2014

 

L’INARRESTABILE EMIGRAZIONE DALL’AFRICAultima modifica: 2014-05-13T12:08:51+02:00da gianni.pardo
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