I PROFUGHI E IL DOVERE DELLA PIETA’

In questo periodo in cui si parla fin troppo di rifugiati e profughi, si sente spesso usare un argomento che sembra imbattibile: “Ma allora tu lasceresti che i migranti affoghino nel Mediterraneo senza soccorrerli?”, “Tu chiuderesti la porta a chi cerca di salvarsi dall’oppressione, dalle bombe, dai massacri?”. La conclusione è costante: “Innanzi tutto bisogna salvare delle vite umane, il resto si discute.” Di fronte a simili argomenti, di solito l’interlocutore svicola e al massimo propone di assolvere quel dovere in altro modo: ma il principio rimane intatto.
Questo genere di fenomeno dialettico si verifica quando un’idea, una regola, una certezza sono universalmente condivisi. Ci sono stati ad esempio un paio di secoli in cui nessuno ha messo in dubbio l’esistenza delle streghe e dei loro poteri. A volte le stesse interessate erano sinceramente convinte di avere uno speciale rapporto col Diavolo. La discussione dei contemporanei non concerneva dunque l’esistenza di un fenomeno tra il religioso e il criminale, come si farebbe oggi, ma soltanto la politica da adottare contro di esso. Prova ne sia che la procedura dei processi era minuziosamente regolata: il fatto in sé era posto al di là dei dubbi.
Come per la geometria è un indiscutibile postulato di base che la retta sia infinita, nell’epoca attuale, quando si parla del dovere di salvare comunque vite umane, ci si fa forti di un principio universalmente accettato. Ci si può tuttavia chiedere se siamo di fronte ad un principio valido in ogni tempo e in ogni Paese, o se si tratta di un’idea del nostro tempo e non di altri.
Va innanzi tutto osservato che il dovere della pietà viene pressoché completamente azzerato in guerra. Per secoli i vinti sono stati uccisi o venduti come schiavi. Né può dirsi che le guerre siano uscite dalla storia. Meno d’un secolo fa Hitler ha cercato di uccidere decine di migliaia di londinesi innocenti, e poco più tardi gli Alleati sono riusciti ad uccidere centinaia di migliaia di civili tedeschi innocenti. Intere città, come Hannover, Dresda, Amburgo, Berlino, sono state rase al suolo. Dunque, prima di scandalizzarci all’idea di lasciar morire o addirittura uccidere degli innocenti, faremmo bene a ripassare un po’ di storia.
L’unica differenza fra i bombardieri che sganciano bombe da diecimila metri e i rifugiati che premono alle frontiere, è che questi secondi uno li guarda in faccia. Vengono con le loro donne, i loro bambini, la loro miseria e la loro disperazione. Eppure queste particolarità non risultano discriminanti, nel complesso della storia. Al riguardo si può ricordare un episodio della campagna delle Gallie.
Giulio Cesare pose l’assedio ad Alesia, con l’intento di prenderla per fame. Dopo qualche tempo all’interno della città il cibo cominciò effettivamente a scarseggiare e i Galli adottarono allora una terribile decisione: espulsero dalla città le donne, i vecchi e i bambini – inutili per la difesa – mandandoli incontro all’esercito di Cesare. Speravano che i romani li nutrissero o comunque non avessero il coraggio di lasciarli morire di fame e di stenti fra i due schieramenti. Cesare non si lasciò commuovere dalle suppliche e dai pianti. Le risorse erano quelle che erano, e se degli sventurati non importava abbastanza agli assediati, non importava neppure abbastanza agli assedianti. Infine Alesia fu vinta.
Questa pagina di storia è emblematica. La pietà è qualcosa che si deve sentire, ma che non sfugge agli imperativi della logica e della necessità. Ecco perché la domanda: “Ma tu non avresti pietà dei rifugiati?” non è affatto un’arma imparabile. Ad essa è lecito rispondere innanzi tutto: “Quanti sono?” Anche Cesare, probabilmente, avrebbe soccorso un paio di donne e qualche bambino, ma non metà e più della popolazione di Alesia.
Nel caso dei rifugiati, i punti da tenere presenti sono parecchi. Se sono troppi, per esempio dieci milioni, non è possibile soccorrerli tutti. Inoltre è necessario sapere se sono in grado di lavorare e possono integrarsi nel Paese d’accoglienza o se vengono soltanto a beneficiare dell’assistenza pubblica. È pure importante sapere se sono di una civiltà assimilabile o se in futuro costituiranno un problema insolubile: nel caso dei musulmani l’esperienza francese è più che allarmante. E poi, c’è modo di distinguere se fra i migranti si dissimulino criminali e terroristi?
L’appello alla pietà indiscriminata va bene in un talk show, ma non nella politica seria. La politica deve occuparsi anche delle conseguenze lontane delle decisioni adottate sotto la pressione dell’emotività.
Gianni Pardo, pardonuovo@myblog.it
20 settembre 2015

I PROFUGHI E IL DOVERE DELLA PIETA’ultima modifica: 2015-09-21T11:27:57+02:00da gianni.pardo
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