AIUTIAMOLI A CASA LORO

Dinanzi al problema dell’immigrazione di massa proveniente dall’Africa, c’è sempre qualcuno che lo risolve col semplice slogan: “Aiutiamoli a casa loro”.
Già qualcuno potrebbe dire che, in campo internazionale, nessuno aiuta nessuno. Ma ammettiamo che per una volta lo si voglia fare, e vediamo se è possibile.
1= Noi siamo abituati a deformare la geografia sulla base dell’importanza dei vari Paesi.  La superficie della Mongolia Esterna è grossomodo equivalente a quella dei Paesi dell’Europa occidentale e centrale (tutti i Paesi europei salvo la Russia) e ciò malgrado nessuno mai le darebbe l’importanza che diamo al Portogallo.
Lo stesso avviene per la popolazione. Tempo fa si parlò di una colletta per combattere la fame in India, dimostrando di non avere idea della situazione. L’India conta circa 1.330.000.000 di abitanti, dunque oltre ventidue indiani per un italiano. A suo tempo l’India quasi si offese, per la nostra iniziativa, e Indira Gandhi neanche ci ringraziò.
L’Africa ha una superficie corrispondente a poco più di cento volte quella dell’Italia e una popolazione di circa un miliardo e duecento milioni di abitanti. Ovviamente non tutti gli africani desiderano emigrare, ma la sola Nigeria ha 186 milioni di abitanti. Veramente saremmo in grado di “aiutarli a casa loro”? Insomma, prima di aprire bocca, non sarebbe il caso di aprire un qualunque libro di geografia? Difficilmente le pulci possono fornire un valido aiuto agli elefanti.
2= Aiutare è più difficile che fare l’elemosina. Aiutare significa rimettere in piedi qualcuno, dargli la possibilità di riprendersi, fargli superare il momento di difficoltà. Ma se l’Italia con questa benemerita attività non è riuscita a mettere in piedi il suo Sud, dopo centocinquant’anni di unità nazionale, come potrebbe farlo con interi Paesi lontani e ancor più poveri? In Italia si è riusciti a sprecare miliardi e miliardi (si pensi alla rovinosa amministrazione della Regione Sicilia) e il Sud è ancora un Paese arretrato, rispetto alla Lombardia. Si dirà che è colpa dei meridionali, e sia. Ma perché gli africani dovrebbero essere migliori dei nostri meridionali? Fra l’altro, avete mai visto un Paese povero che è diventato ricco perché l’hanno aiutato?
3= Non dimentichiamo che lo Stato in sé non esiste e non spende denaro suo ma denaro nostro, prelevato con le tasse. Dunque i cittadini reagirebbero con un’incontenibile rabbia, se si vedessero tassare a morte, a fondo perduto e a tempo indeterminato, per finanziare gente che non hanno mai visto e di cui non gli importa un fico secco. Nessun governo democratico potrebbe permetterselo.
4= Ovviamente non esiste nessun modo efficace per impedire che le somme stanziate non finiscano nelle tasche dei maggiorenti e dei dittatori, piuttosto che essere realmente spese a favore dei popoli. Non dimentichiamo che ciò si è pressoché costantemente verificato in passato.
5= Ammesso che l’emigrazione dipenda dalla sovrappopolazione, è chiaro che un maggiore benessere favorirebbe un aggravamento della stessa sovrappopolazione, cosicché il serpente si morderebbe la coda. I Paesi poveri in questo campo possono aiutarsi soltanto da sé, evitando di mettere al mondo i figli che non possono nutrire, o aumentando la produzione di ricchezza.
6= Infine non ci si rende conto del fatto che la prosperità o la miseria spesso dipendono dal livello culturale e dal tipo di civiltà, cose difficilissime da cambiare. Il Giappone e la Svizzera sono privi di risorse naturali e sono ambedue Paesi “ricchi”, mentre il Venezuela ha avuto il regalo del petrolio e attualmente è alla fame e alla disperazione. La gente emigra disperata, anche a piedi, e va a far la spesa nella vicina Colombia, perché in Venezuela non si trovano più nemmeno i medicinali. E comunque, senza andar lontano, basta dare un’occhiata alla differenza di livello economico fra Israele e il resto della Palestina, il primo per giunta boicottato e la seconda che riceve aiuti dall’estero. La geografia è la stessa, la cultura no. E contro questo non c’è molto da fare.
Né si può essere sicuri che i Paesi “poveri” gradirebbero di vedere arrivare degli stranieri che gli dicono ciò che devono fare. L’esperimento fu tentato dopo la fine del colonialismo, fu chiamato “paternalismo” e non ebbe successo. Tanto che non se ne parla più.
“Aiutiamoli a casa loro” è uno slogan privo di senso. Una moneta falsa da spendere per far credere di avere una soluzione che non si ha.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
9 luglio 2018

AIUTIAMOLI A CASA LOROultima modifica: 2018-07-09T09:52:57+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo

6 pensieri su “AIUTIAMOLI A CASA LORO

  1. Le devo confessare che io sto assistendo al dibattito tra salvinisti e savianisti con profonda noia e con la consapevolezza, che Lei potrebbe trovare complottistica, di trovarmi dinnanzi ad un autentico gioco delle parti, orchestrato dietro le quinte da qualcuno.
    Perché è tale l’ignoranza che emerge da entrambi gli schieramenti, tale il carico di irritanti demagogia e populismo che non si può davvero credere che questi signori non sappiano come stanno davvero le cose.
    Entrambe le narrative, quella di chi pensa di poter all’infinito respingere i barconi e di chi pensa che l’Italia possa – e ovviamente non può – ospitare un miliardo di africano sul proprio suolo, si basano su un falso di fondo: ossia non rendersi conto che l’unico modo per risolvere i problemi di questi disgraziati è di capire che quella che oggi noi comunemente identifichiamo come la geografia politica dell’Africa, non è nient’altro che una serie di stati fantoccio creati più o meno direttamente dall’ONU, che non vengono riconosciuti dal 90% della popolazione locale.
    Le faccio un esempio che conosco bene, avendo vissuto e lavorato in Libia e avendo frequentato la Somalia.
    Noi comunemente siamo portati a pensare che esista uno stato sovrano chiamato Libia, uno stato sovrano chiamato Somalia.
    Ma è una balla.
    Il 90% della popolazione libica è frantumato in una centoquarantina di tribù perennemente in lotta tra loro – e, attenzione, non una lotta ordinata, settanta da una parte e settanta dall’altra, no, si fanno la guerra tutti contro tutti – e divisi su tutto, lingua, tradizioni, visioni del Corano (alcune tribù non sono neanche islamiche, tra l’altro) ma unite da un solo punto: il non riconoscimento dell’autorità politica che l’ONU, a tavolino, ha stabilito per questi cristi. Che è un po’ come se io venissi a casa sua e dicessi “Da oggi tutti gli appartenenti alla famiglia di Gianni Pardo si chiameranno Marino di cognome”, col risultato inevitabile che Lei giustamente mi prenderebbe a botte.
    E guardi che non conto balle: se Lei andasse da un libico locale e gli chiedesse “Scusi ma lei è libico?” quello lì Le risponderebbe “Libia? Cos’è la Libia?” sgranando gli occhi.
    La non comprensione di questa situazione, comune praticamente al 95% degli stati africani come li conosciamo oggi, ci rende ciechi dinnanzi all’unica reale possibilità di porre fine a questa situazione, ossia “aiutarli a casa loro”.

    Naturalmente, le perplessità risiedono sul “come”.
    Lei oppone allo slogan salviniano “aiutiamoli a casa loro” – che poi in realtà non è di Salvini ma di Craxi – un’obiezione apparentemente imparabile e cioè: non si può finanziare questi paesi a fondo perduto. E chi ha parlato di fondo perduto?
    Qui occorre chiarire l’altro grande equivoco relativo a quelli che Lei chiama “i dittatori africani”, e il chiarimento di tale equivoco si fonda sul debunking che poco sopra ho tentato di fare.
    Quelli che Lei chiama dittatori, in realtà non sono che capitribù finanziati, armati e protetti dalle grandi potenze in Africa.
    Gheddafi, per dire, non era nient’altro che un banale capo della tribù Ghadafi (da cui il nickname Gheddafi) che l’URSS armò e finanziò in chiave antioccidentale, rovesciando il Re Idris che invece era sostenuto dall’Occidente.
    Quando crollò l’URSS, finché Gheddafi accettò di servire l’asse atlantico, rimase in sella: quando, accordandosi con Berlusconi e cercando sponde in Putin, decise di smarcarsi, venne fatto fuori da Sarkozy nelle modalità che conosciamo.
    Oggi ai vertici della Libia vi sono due personaggi di cui uno cresciuto nella CIA, l’altro ex-ministro di Gheddafi e a sua volta capo di una sua tribù. Un casino preorganizzato.

    E sia chiaro, situazioni simili sono presenti in tutti i paesi africani e si contraddistinguono sulla base del solito schema: una grossa potenza desiderosa di impadronirsi di tutte le materie prime del territorio, trova un capotribù col quale riesce ad andare d’amore e d’accordo e accetta di tenerlo lì al potere, a patto che questo capotribù accetti di consegnare alle multinazionali facenti capo alla potenza padrona tutte le risorse minerarie del territorio.

    Questo spiega come mai l’Africa, pur essendo il continente più ricco di materie prime, presenta le economie più povere e spiega pertanto anche come mai milioni di africani sbarchino in Europa, come è ovvio. Se tu gli hai distrutto l’economia, che alternativa hanno?
    In sintesi: la situazione attuale è colpa di potenze geopolitiche fameliche che tutto ciò che ambiscono a fare è sfruttare fino all’osso le risorse di quei territori, senza ricambiare sviluppandone l’economia.
    E’ il neocolonialismo che si contrappone al colonialismo vecchia maniera: che sfruttava sì quei territori e nelle maniere più bieche possibili. Ma, al tempo stesso, era costretto anche a dover costruire qualcosa perché quei territori erano appartenenti a loro, non erano stati fantoccio a cui lasciare l’onere della spesa e dei debiti e a cui rubare l’onore del PIL.
    Qual è l’uscita? C’è una terza via che è quella che i paesi europei si mettano d’accordo e decidano di andare a prendersi questi territori, stavolta non su base coloniale ma facendoli evolvere in regioni europee a tutti gli effetti.
    L’Algeria tornerebbe ad essere una regione francese (come lo era in passato: non era una colonia, era proprio una regione) la Libia diventerebbe una regione italiana, idem l’Etiopia e la Somalia.
    E la caratteristica di queste regioni è che i cittadini che li abitano, godano degli stessi diritti e dello stesso benessere dei paesi europei. Noi in cambio avremmo un quantitativo di materie prime enormi, enormemente superiore al fabbisogno delle popolazioni locali che saranno ben felici di diventare regioni europee se ne vedranno un vantaggio.
    E se Lei si trovasse ad obiettare che questa sarebbe un’annessione forzata, non dimentichi mai la Stella Polare di partenza: non esistono nessuna Libia, nessuna Somalia, nessuna Etiopia, nessuna Nigeria, nessuna Algeria.
    Sono solo stati fantoccio creati dall’ONU e niente più.
    Bisogna semplicemente uscire dai ricatti morali e mettere gli scarponi in Africa, stavolta però facendolo in maniera illuminata e ragionata, senza le schifezze del passato.

  2. Caro Marino,
    ovviamente non risponderò a tutto ciò che Lei ha scritto: un po’ perché è molto, un po’ per mia incompetenza. Ma tengo a dirle che il suo scritto è “refreshing” per l’indipendenza da tutto il retoricume che si sente sull’Africa.
    Non sono d’accordo con la Sua soluzione finale, innanzi tutto perché la reputo impraticabile, in concreto. Fra l’altro non credo possibile indurre una nazione a svilupparsi “dall’esterno”. I veneti – che magari sono meno vivaci intellettualmente dei siciliani – hanno sicuramente molto più spirito imprenditoriale dei siciliani. Ora mi dica: inviando un reggimento di veneti a insegnare ai palermitani e ai catanesi che cos’è lo spirito imprenditoriale, Lei crede che improvvisamente vedremmo nascere a Catania e Palermo una folla di piccole imprese?
    E il resto in proporzione. Se il Sud italiano è più povero del Nord è per colpa sua, non per colpa del Nord. Anche se ama dirlo e pensarlo. Anche se i piemontesi hanno avuto i loro torti, da allora è passato più di un secolo, anzi, più di cento-cinquant’anni. E se non siamo sufficientemente europei noi meridionali, Lei vuole che lo divengano i libici o i somali?

  3. Impraticabile perché?
    Se noi oggi sommiamo il PIL degli stati africani che un tempo costituivano le nostre colonie (Libia, Etiopia, Somalia, Eritrea) e ci aggiungessimo altre realtà dell’Africa Orientale (Sudan e Ciad) ci renderemmo conto che messi assieme, non raggiungerebbero il 10% del PIL italiano, numeri alla mano.
    Se l’Italia si occupasse di creare un’economia locale, di far stare in un benessere analogo al nostro quelle realtà, dando loro diritti e doveri analoghi a quelli di un paese europeo, ci renderemmo conto che ben presto saranno quelle stesse popolazioni a ritenere superate le istanze tribali locali.
    Se molti di questi poveretti oggi vanno a rimpolpare le fila del terrorismo islamico, se si abbarbicano alle loro usanze tribali, sovente arretrate e incivili, ciò deriva proprio dal fatto che non rimane loro nient’altro. E’ in un certo qual senso, ci faccia caso, forse il presupposto del ritorno dei nazionalismi in Europa che, facendo leva sulla tradizione, in sostanza offrono una risposta alle pance vuote di tipo passatista e nostalgica: cosa accade quando l’Oggi è triste? Ci si rifugia nello Ieri, illudendoci che possa bastare.
    Quanto alla differenza di mentalità tra Nord e Sud, io su questo la penso diversamente da Lei. Non ho mai creduto che il meridionale abbia meno spirito di impresa del settentrionale, non credo che esista un gene che influenzi una maggiore imprenditorialità di un catanese rispetto ad un Veneto.
    Le differenze cui fa cenno sono di tipo culturale, non genetico, ed è esattamente per questo che io non credo ad una soluzione democratica dei tanti problemi che affliggono il nostro paese: arriva un momento nella storia in cui non si può demandare alle democrazie – che, come Montanelli ci insegnava, altro non sono, per costituzione e natura, che il trionfo della mediocrità – il compito di far eseguire un certo scatto culturale.
    E non perché io non creda in assoluto alla democrazia, anzi – la democrazia, sia detto col mio consueto insopportabile cinismo, è necessaria al potere per non rispondere direttamente e col proprio sangue delle proprie inefficenze – ma perché purtroppo quella nella quale ci troviamo è una non-democrazia travestita da democrazia, dalla quale si esce solo in maniera violenta.
    Arriva un momento in cui certi cambiamenti, e questo vale sia per l’Italia, sia per l’Africa, non possono proporsi se non attraverso la forza né più né meno di come la Rivoluzione Francese, sui cui ideali sono strutturate le società moderne, non fu un evento dal basso né un evento pacifico. Si tagliarono teste, si versò sangue ma alla fine è nata una nuova tipologia di società.
    Vaste programme, dirà lei. Già.
    Come è un vasto programma pretendere che per poter definire un individuo guarito dal cancro, anche l’ultima cellula maligna deve sparire: oggi nessuna cura lo garantisce. Ma ciò non toglie che sia l’unica speranza affinché si giunga ad una guarigione completa.
    Viceversa, tutto ciò a cui si assiste è una navigazione a vista, dominata da due visioni profondamente diverse ma ugualmente populistiche – e tantopiù insopportabili quanto più pretendano di essere risolutive – di un cancro che non è curabile in altro modo.
    Qualcosa che personalmente mi ha stomacato. E credo che, se un po’ La conosco, abbia stomacato anche Lei.

  4. Mi permetto di mitigare l’eccessivo pessimismo, anche se purtroppo spesso giustificato da ben noti casi di malversazione e corruzione, con cui viene affrontata la politica degli aiuti.Al riguardo, segnalo un recentemente libro che documenta il percorso di sviluppo di un Paese africano, il Rwanda, che lascia qualche speranza sulla possibilita’ che si possano incontrare governanti capaci di fare buon uso degli aiuti ricevuti a beneficio delle loro popolazioni.Gia’ l’Introduzione del libro
    da’ un’idea dell’esempio ruandese:
    https://alberwandesi.blogspot.com/2018/03/aiutiamoli-casa-loroil-modello-rwanda.html?m=1

  5. 1) Una rondine non fa primavera.
    2) L’Italia sembra piuttosto aver bisogno di qualcuno che l’aiuti (anche a ben governarsi) piuttosto che essere capace di aiutare gli altri.
    Comunque il pessimismo non è pressoché mai giustificato, quando non si è disposti a rare eccezioni. Dunque viva il Rwanda. Ma per noi questo non è il momento della generosità.

I commenti sono chiusi.