PALAMARA FICTION

Anni fa ho scritto un racconto (Navac, leggibile aprendo pardofiction.myblog.it) in cui un miliardario scrive un romanzo e tutti gli editori glielo rifiutano. Allora decide di risolvere il problema in altro modo: organizza una grandissima pubblicità per lanciarlo ed ottiene un enorme successo. Ma non l’avrebbe mai avuto se, prima, non avesse aspeso denaro a palate.
A questa storia ho pensato recentemente quando la Giustizia si è alzata dal suo augusto soglio e, per fare in fretta (dei motivi di questa fretta hanno scritto in parecchi) ha buttato per terra la bilancia e la spada e si è messa a correre. Così ha potuto condannare Luca Palamara all’espulsione dalla magistratura. Della bilancia e della spada si può non avere nessuna nostalgia, dal momento che sono simboli retorici; più difficile è però accettare che i decidenti abbiano escluso l’audizione dei centotrenta o più testimoni citati a sua difesa da Palamara. Che sarà pure antipatico, ma avrebbe avuto il diritto di difendersi. Un diritto che gli è stato negato. Ecco un caso in cui tra chi sta seduto nella poltrona più comoda e chi è seduto sullo sgabello dell’imputato la scelta diviene problematica.
Poi si sa come vanno queste cose. Quando si tratta di qualcuno che piace poco, o di un singolo senza importanza, ci si volta dall’altra parte. E dopo non molto tempo si dimentica l’intera faccenda. Cosa che – è evidente – è quanto spera il Consiglio Superiore della Magitratura. In questo si vede quanto avesse ragione Martin Niemöller quando scrisse quelle famose parole: “Quando i nazisti presero i comunisti, ho taciuto; io certo non ero comunista. Quando imprigionarono i socialdemocratici, ho taciuto; io certo non ero socialdemocratico; quando hanno preso i sindacalisti, ho taciuto; io infatti non ero un sindacalista; quando hanno preso me, non c’era più nessuno che potesse protestare”.
Bisognerebbe avere a cuore la causa di ogni singolo, di qualunque singolo, perché è nella difesa del singolo che la democrazia realizzata si diversifica dall’autocrazia asiatica. Era questo che faceva sentire i greci superiori ai persiani. Se si reputa che il singolo abbia torto, lo si può abbandonare al suo destino, ma quanti colleghi di lavoro non sostengono il singolo che pure sanno avere ragione per non mettersi in urto con quella minima autorità che è il capoufficio, il capo officina, il preside o comunque il Signor Presidente? Come ha detto qualcuno, sono i sudditi che creano i dittatori, non l’inverso.
Comunque, dato che siamo nel campo della pubblicità, ed anche nel campo della fiction, mi diverto ad ipotizzare che il miliardario Navac sia io e possa sguinzagliare a mie spese, in tutta Italia, centotrenta e passa intervistatori per contattare i testimoni di Palamara e chiedere loro come rispondono alla lista di domande che (Art.244 C.p.c.) chi chiede una testimonianza deve indicare. Sarebbe semplice: “Palamara le chiede questo: Lei come risponde?” Annotando anche semplicemente: “Si rifiuta di rispondere”. Ma come reagirebbe la gente a questo silenzio? Una signora perbene, che si sente chiedere: “Scusi, lei è una puttana?” non si limita al silenzio. E poi, come escludere che ci siano inevitabili ammissioni, accuse reciproche, e in totale la scoperta dell’acqua calda, cioè che Palamara non era il solo colpevole, ma l’intera magistratura, agli alti gradi, funzionava in quel modo?
Attenzione, ciò che dà più fastidio, in questo contesto, non è il fatto delle raccomandazioni e dei mercanteggiamenti, quanto la generale ipocrisia. Questo non si può tollerare. Il don Giovanni di Tirso de Molina, e se è per questo anche quello di Molière, hanno la grandezza di non rinnegare i propri peccati. Meglio sarebbe stato ricordare che la stragrande maggioranza delle carriere universitarie si svolge con modalità per nulla diverse, che i posti apicali di sottogoverno non sono assegnati in base alla superiore competenza, ma all’appartenenza a quell’“area” politica cui tocca fare il nome. Poi magari chi sceglie evita di indicare un imbecille, ma rimane il fatto che ci potrebbe benissimo essere qualcuno più meritevole di lui, che viene messo da parte. Come avviene in magistratura. Del resto, questo potrebbe chiamarsi “sistema italiano”. Da noi nessuno che abbia la possibilità di raccomandare una persona cara se ne astiene. E se non lo facesse sarebbe additato al pubblico ludibrio. Basti dire che se un vigile urbano della Valtellina o di Mazara del Vallo dichiara in contravvenzione per divieto di sosta l’automobile del sindaco, la notizia è riportata da tutti i giornali, dalla Valtellina a Mazara del Vallo e viceversa. Insomma “La legge è uguale per tutti, salvo che per l’automobile del sindaco”. E non soltanto salvo che per quella.
Intendiamoci, non è che si stia applaudendo la realtà com’è. Questo sconcio andrebbe eliminato, ma non con i sistemi drastici dei Cinque Stelle. Non è vero che basta condannare qualcuno a morte per educare tutti: questa era l’inefficiente mentalità medievale. Bisogna cercare di punire tutti, senza infierire, ma senza fare eccezioni. E francamente non so come bisognerebbe fare, perché si tratta di lottare contro una pratica talmente diffusa che la prima difficoltà sarebbe quella di far capire che si tratta di un delitto. Che chi raccomanda qualcuno chiede un’ingiustizia a carico di qualcun altro. E i mutamenti sociologici sono i più lenti da ottenere. Certo non si otterranno escludendo Luca Palamara dalla magistratura, perché anche l’ultimo dei bifolchi dirà: ora tutti i magistrati compreranno un telefonino anti-trojan e poi business as usual.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
13 ottobre 2020

PALAMARA FICTIONultima modifica: 2020-10-13T12:57:06+02:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “PALAMARA FICTION

  1. “….ciò che dà più fastidio, in questo contesto, non è il fatto delle raccomandazioni e dei mercanteggiamenti, quanto la generale ipocrisia.”
    A cominciare da quella dell’uomo del Colle.

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