VORREI ESSERE KEYNESIANO

Leggo sulla Repubblica un articolo di Giorgio La Malfa(1) in difesa di John Maynard Keynes e lo trovo apprezzabile per chiarezza, per il serio affronfondimento e, direi, per una trasparente onestà intellettuale. Del resto l’ho letto innanzi tutto per un pregiudizio positivo nei confronti dell’autore (keynesiano convinto) e persino di suo padre Ugo. Ma il motivo più profondo è un altro: quello che chiamerei “la tragedia del miscredente”.
L’ateo da salotto è qualcuno che ama la sua posa di contestatore, di empio, di coraggioso contraddittore delle convinzioni correnti. L’ateo da cella monacale è invece colui che alla miscredenza è arrivato controvoglia. Un ateo intellettuale che non crede perché non riesce a credere. Che amerebbe essere confutato, perché all’assenza di Dio è arrivato a forza di cercarlo, di sentirsene orfano.
Non ci si guadagna nulla, ad essere atei. È vero che dal credere in Dio neanche i credenti ricavano qualcosa, ma l’illusione di poter avere un aiuto non è cosa da poco. Il vero ateo si vede invece costretto alla propria animalità, alla propria insignificanza, al suo destino di mortale assurdo. E, come non bastasse, si vede giudicare male per il proprio negazionismo: come non riconoscere un Padre invisibile ma onnipotente e benevolo?
Ecco, riguardo a Keynes, mi sono sempre trovato nella condizione dell’eretico. Non solo la sua teoria è universalmente reputata salvifica, ma è coralmente accettata da politici, economisti e perfino cardinali. Tanto che risorge dalle sue ceneri il “principio di autorità” il quale mi guarda accigliato e mi chiede: “Chi sei tu per dare torto a tante persone più importanti di te?”
Per questo ho tendenza a vestire il saio e dire al Sant’Uffizio Keynesiano: “Sono un povero peccatore, ma non chiedo di meglio che di fare penitenza. Illuminatemi, e sarò di nuovo una docile pecorella di Madre Chiesa”.
Giorgio La Malfa ricorda che la teoria di Keynes è nata dallo scetticismo rispetto ai poteri di autoregolazione del mercato, in momenti di crisi. Keynes stesso, per chiarirla e per riassumerla, ha scritto nel 1937 un mirabile articolo sul Quarterly Journal of Economics, in cui sostiene che la prosperità economica e la piena occupazione dipendono dalle aspettative degli imprenditori. Se costoro prevedono un futuro positivo, investono, assumono, producono e, per così dire, il famoso “moltiplicatore” della ricchezza keynesiano funziona per impulso proprio.
Se viceversa gli imprenditori sono pessimisti e non sono disposti a scommettere sul futuro, sugli “animal spirits” del mercato, tutto ciò non avverrà e sarà la crisi. Una crisi cui può mettere rimedio lo Stato, o con un’apposita politica monetaria (credo alluda allo stimolo della domanda) o attraverso l’investimento pubblico. “Si tratta di colmare i vuoti che le aspettative degli imprenditori possono creare nella domanda aggregata”. E si tratta di compensare i ”momenti di debolezza” del capitalismo. Keynes arriva a parlare di “socializzazione degli investimenti”, anche se La Malfa scrive che questo ultimo punto è sicuramente un errore. Questa l’arringa della difesa. Quella che avrei tanto amato mi convincesse. Ma non mi convince.
In primo luogo va notato che, nella teoria di Keynes, quale l’abbiamo sempre conosciuta, e come qui la riporta La Malfa, l’intervento dello Stato (che sia stimolando direttamente la domanda o mediante investimenti pubblici) è visto come rimedio ad una situazione di emergenza, non come costante politica economica. Per questo ho sottolineato le parole “momenti di debolezza”. Ci sono medicinali che si possono e si debbono prendere per tutta la vita, per tenere a bada alcune malattie che non si possono guarire ma contenere (per esempio il glaucoma), mentre ci sono medicinali (per esempio l’uso massiccio di cortisone) da usare quando l’emergenza è tale che l’alternativa è peggiore di tutte le controindicazioni. Ed è proprio questa distinzione che bisognerebbe tenere presente. Ammesso che la teoria dell’economista inglese sia esatta, poiché che essa si applica ad “un momento di debolezza”, si dà il cortisone e se il malato guarisce tutto bene. Ma se non guarisce non bisogna insistere col cortisone, perché diversamente quello che era un malato in gravi condizioni sarà un cadavere in buone condizioni. In altri termini, per essere keynesiani ortodossi, bisognerebbe sì intervenire con gli investimenti pubblici ma, se essi non funzionassero (si tratta pur sempre di “un momento di debolezza”) bisognerebbe subito smettere di sperperare denaro pubblico. Keynes non ha mai detto che quel rimedio funziona sempre, e che se non funziona bisogna usarlo indefinitamente. Indefinitamente lo concepiva la teoria di Marx, non di Keynes. Purtroppo è difficile convincere i governanti a non mettere le dita nell’economia. In Italia lo fanno da oltre mezzo secolo e ci ritroviamo nella situazione in cui siamo.
Ma nella tesi c’è un difetto ancora più grave, perché tocca il nocciolo stesso della teoria. Come detto, secondo Keynes, il punto nodale della prosperità economica dipende dalle aspettative degli imprenditori: secondo che questi siano ottimisti o pessimisti, secondo che essi scommettano o non scommettano sul futuro, secondo che investano o non investano. E se non lo fanno lo Stato può sostituirsi a loro, o stimolando la domanda o con investimenti pubblici. Ma questo schema riposa su un presupposto di fondo: e cioè che gli imprenditori sbagliano: mentre essi sono pessimisti, ci sarebbero ragioni per essere ottimisti. E che cosa lo dimostra? Per quanto mi sia sforzato, questa dimostrazione non l’ho mai vista. Immaginiamo che l’economia sia un’automobile che una mattina non si metta in moto. Se di notte hanno rubato un pezzo essenziale del motore (crisi strutturale), non ci sarà moto di farla ripartire. Se invece si è scaricata la batteria (crisi congiunturale) basterà spingerla per qualche metro. Solo che per l’economia non c’è modo di sapere come stanno le cose.
Perché mai lo Stato, che non ha il mestiere di produttore di ricchezza, che è un pessimo amministratore, e che non ha la prudenza di chi rischia denaro proprio, dovrebbe saperla più lunga di chi, al contrario, per mestiere produce ricchezza, è un ottimo amministratore e rischia denaro proprio o dei suoi azionisti?
Il difetto della teoria di Keynes è nel manico. Cioè alla base del problema. Lo Stato non è qualificato a predire il futuro. E certo non più degli imprenditori. Spesso non capisce nemmeno il presente. Come diceva Sergio Ricossa, se i grandi economisti fossero quei geni che si crede siano (o, peggio, essi credono di essere) smetterebbero di rimanere attaccati come cozze al loro stipendio di professori universitari e si limiterebbero ad investire in Borsa. Divenendo presto miliardari. Dunque, nemmeno servendosi dalla consulenza degli economisti più celebrati, lo Stato può essere certo di azzeccarci.
Il meglio che potrebbe fare – penso io – sarebbe modificare, seppure per un tempo limitato, le condizioni del mercato. Gli imprenditori non investono? E lo Stato abbassa la tassa sui profitti, in modo da allargare il margine di guadagno e salvare l’attività delle aziende in bilico. Se si trattava di “un momento di debolezza”, la tassa potrebbe poi riprendere il livello precedente. Se invece la crisi non fosse superata, almeno lo Stato se la sarebbe cavata con una spesa minore.
In fondo, il nocciolo della questione riguarda l’identificazione del protagonista. Secondo ciò che La Malfa scrive di Keynes, per questo economista il protagonista è l’imprenditore che, nel momento di difficoltà, deve essere aiutato a fare il suo mestiere. Viceversa, secondo i suoi innumerevoli interpreti (e traditori) il protagonista è lo Stato che, con la sua costante azione diretta, può salvare l’economica. Con i risultati che sappiamo.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
(1)http://cercanotizie3.mimesi.com/Cercanotizie3/intranetarticle?art=534029315_20210302_14004&section=view&idIntranet=212

VORREI ESSERE KEYNESIANOultima modifica: 2021-03-04T09:02:09+01:00da gianni.pardo
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