L’OLOGRAMMA DEL NUOVO

Il Novecento è stato un secolo alla ricerca di sé. Sentendosi il risultato finale di tanti secoli precedenti, ha avuto l’atteggiamento di quei giovani che hanno avuto la sfortuna di un padre geniale. Ragazzi costantemente oppressi da un paragone che li declassa ad epigoni indegni di una storia gloriosa. Il passato ha proceduto in salita, fino a produrre il loro padre, per poi precipitare al livello del loro povero io. E quando i discendenti temono di essere inferiori ai loro progenitori, cercano disperatamente un alibi. Come minimo cambiano strada, per non competere sullo stesso terreno: i figli degli artisti provano a fare i soldi, i figli degli arricchiti si dànno alla Bohème.
Il Novecento ha cercato di fuggire dal passato, trovando i propri valori e i propri successi. E lo ha fatto coscientemente: basti vedere l’abbondanza di “manifesti” artistici, come se il capolavoro si potesse programmare. Questo tempo ha disperatamente cercato il nuovo, senza trovarlo.
Una tendenza artistica dei primi decenni, che si è spinta perfino all’arredamento, si è chiamata “Stile Novecento”. Intendendo precisamente “stile nuovo”, in contrasto col vecchio e superato Ottocento. Un’idea che, nei primi dell’Ottocento, non sarebbe venuta in mente a nessuno. Pur venendo da un Settecento, fucina dell’età contemporanea, si sentiva già diverso e valido. Addirittura la Francia è rimasta talmente legata al suo grande passato, da dover importare dall’estero un Romanticismo che altrove era già un frutto maturo. Invece il Novecento aveva tanti complessi da non poter dire: “Sono migliore di mio padre”. Riusciva appena a mormorare: “Sono diverso, voglio essere diverso”.
La prima, mesta, constatazione è che lo stile del secolo scorso, che si voleva coraggioso e perfino “futurista”, non è andato lontano. Presto è sembrato datato, enfatico e vuoto. Al punto da apparire falso e un po’ fascista. Infatti, all’incirca dopo la Seconda Guerra Mondiale, è nato un nuovo aggettivo: “postmoderno”. Come se si potesse andare al di là della modernità. “Moderno” significa in fondo contemporaneo e dunque ogni epoca ha la sua modernità. Qualcosa che, in prospettiva, diviene poi, semplicemente, “il suo tempo”. L’aggettivo postmoderno certifica soltanto il fallimento delle speranze di coloro che avevano voluto anticipare il futuro.
Il Novecento è una collezione di speranze frustrate. Ha cercato vanamente di ghermire il futuro prima che si presentasse da sé e invariabilmente si è accorto che il futuro ha il brutto vizio di divenire presente- E il presente di somigliare al passato.
Da che cosa è dipesa questa instancabile e delusa ricerca del nuovo? La risposta potrebbe essere semplice e banale: si cerca ciò che non si ha. Il progresso scientifico nessuno lo cerca, perché l’abbiamo. Forse anche troppo. Sino a svegliare istinti misoneisti. Inoltre la storia ci insegna che il nuovo appare da sé, spesso in contrasto con ciò che la società cerca. E infatti viene accolto male.
Quando la Parigi intellettuale era illuminista, la Francia profonda era ancora cattolica, monarchica e tradizionalista. Lo era a tal punto che la Rivoluzione non scoppiò contro la monarchia, ma credendo di potersi appoggiare ad essa. Se Luigi XVI, invece di sperare di fermare il tempo, avesse capito come stavano le cose, sarebbe morto nel suo letto. Come, dalla metà del 1600, sono morti nel loro letto i sovrani inglesi.
A proposito di Seicento: la grandissima novità di quel secolo fu la nascita della scienza moderna: e Galileo fu forse accolto a braccia aperte? Le sue argomentazioni apparivano inconfutabili e tuttavia la società era talmente vischiosa da riuscire ad opporsi vittoriosamente anche all’evidenza.
Né diversamente sono andate le cose nell’arte. Nella seconda metà dell’Ottocento la grande novità artistica, nel campo delle arti figurative, è stata l’Impressionismo. Ma come è stato accolto? Con disprezzo, con dileggio, escludendolo dall’arte ufficiale. Lo stesso termine “impressionismo” è stato usato per irriderlo, un po’ come era avvenuto prima con l’aggettivo “gotico”.
Il seguito è triste. Quando la società è stata pronta ad accogliere il nuovo, c’è stato un proliferare di “manifesti” artistici, volti a superare quello che era divenuto il presente. Ma ogni volta si è imboccato un vicolo cieco. L’ “Astrattismo” è soltanto riuscito ad assassinare la pittura, così come la dodecafonia – la ricerca del nuovo in musica – ha potentemente contribuito ad assassinare quell’arte, già morente di suo.
Il nuovo non lo si partorisce in laboratorio. Si presenta come una gramigna e prevale superando grandi difficoltà. Perché è allarmante. Basti dire che ancora oggi ci sono moltissime persone ostili alla scienza, e questo proprio perché continua fonte di novità. Così abbiamo i no-ogm, i no-vax, i no-TAV e – vincenti con ampio margine – i no-eutanasia.
Il Ventesimo Secolo è stato abbastanza sterile perfino nelle idee, ma è stato simile a un uomo affetto da azoospermia che si ostina a fare l’amore nella speranza di avere un figlio.
L’umanità sembra non capire una cosa molto semplice: il discrimine non è nuovo/vecchio, è piuttosto bello/brutto, intelligente/stupido, giusto/sbagliato.
Bisognerebbe inserire questa nozione nel programma di seconda elementare.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
19. aprile 2021

L’OLOGRAMMA DEL NUOVOultima modifica: 2021-04-20T08:21:24+02:00da gianni.pardo
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