GIAPPONESITA’

Ho una grande stima del Giappone e dei giapponesi, ma alcuni dei motivi di questa stima hanno delle controindicazioni. Accettiamo, per meglio spiegarci, la distinzione freudiana fra es, io e superio. L’es è ciò che siamo per così dire in quanto animali: fisiologia e istinti; l’io è ciò che, a nostro parere, effettivamente siamo; il superio è ciò che dovremmo essere, e a volte, nel silenzio della nostra mente, ci giudica con severità. Noi italiani abbiamo un notevole io e un piccolo superio, i giapponesi invece hanno un superio talmente ingombrante da essere opprimente.
Il superio nasce dall’educazione familiare e scolastica, la quale a sua volta è influenzata dalla società: dalle sue istituzioni, dalla sua storia, dalla sua religione, da tutto ciò che fa di un italiano un italiano e di un giapponese un giapponese. Se il superio giapponese è così forte, è perché il Giappone è da molti secoli un Impero unitario, retto da un imperatore tenuto a dare ai suoi sudditi l’esempio del senso del dovere. Il popolo dunque è sempre stato tenuto insieme da un senso di appartenenza, da un “noi” nettamente separato dai vicini (per esempio dai coreani e dai cinesi, sentiti del resto come inferiori). Non da un mare, ma da un oceano. Un italiano si sente in primo luogo un individuo in lotta con gli altri italiani; un giapponese si sente innanzi tutto un giapponese, che ha dei doveri nei confronti degli altri giapponesi. Esattamente come loro li hanno nei suoi confronti. L’italiano è un individuo, come lo è il singolo leopardo, il giapponese è il membro di una comunità, come lo è la formica.
In ogni giapponese è radicato il sentimento dell’incondizionata aderenza alle regole fondamentali del vivere comune. E in primo luogo il sentimento dell’onore. Forse un occidentale ha difficoltà a capire il significato di questa parola, leggermente fuori moda. L’onore è la coscienza e il sentimento della propria dignità; il sentito dovere di corrispondere ad un modello di correttezza, di lealtà, di coraggio ed anche di umiltà. L’uomo d’onore preferirà cento volte dire “Ho sbagliato” – in Giappone a questa dichiarazione a volte seguiva il seppuku, – che “Ho mentito”. Chi ha sbagliato e si suicida è un uomo d’onore, chi ha mentito e continua a vivere, ha perduto la faccia.
Ovviamente questi modelli aulici non sono la regola per il giapponese medio, ma il giapponese medio sa che questi sono i modelli. Negli esami universitari si dà agli studenti una pagina con i quesiti ed essi pongono quel foglio a faccia in giù, dinanzi a loro, in attesa del segnale di inizio. Nessuno sbircia il suo contenuto, perché sarebbe giudicato un essere spregevole dai suoi colleghi. È questa moralità collettiva che fa del Giappone una fortezza etica.
In subordine a questo dovere fondamentale c’è quello della cortesia. Persino negli incontri di arti marziali, la prima cosa da fare è un inchino all’avversario. In quell’antica civiltà sanno che i rapporti fra gli uomini sono difficili, e la gentilezza è un lubrificante che, temperando le asprezze, nasconde le punte dell’emotività che potrebbero ferire e permette un’ordinata vita sociale. Si evita persino di rispondere “no” ad una domanda.
I giapponesi hanno capito che la cortesia non toglie nulla all’energia. La lama del samurai non è meno tagliente perché chi la maneggia è cerimonioso. E invece, nei nostri dibattiti televisivi, noi non porgiamo la palma della vittoria a chi ha superato in argomenti e intelligenza il suo avversario, ma chi ha la voce più tonante.
Il mondo giapponese tuttavia non è privo di controindicazioni. L’io di ognuno, quello che è diverso da tutti gli altri, in Giappone finisce col restare intrappolato nell’io sociale. In ogni occasione è come se ciascuno si chiedesse: “Come si comporterebbe una persona perbene al mio posto?” Il risultato è che il senso del dovere tende a trasformasi in coscienza della propria inadeguatezza e in mancanza di libertà. Perfino in sentimento di colpa per ciò che è profondamente personale e dunque non condiviso dagli altri.
L’uomo veramente libero sente di far parte della classe superiore e non soffre troppo di scrupoli. Non segue umilmente le regole di tutti, perché sente di avere anche il diritto di giudicarle, quelle regole. In definitiva si attribuisce il diritto di essere il legislatore di sé stesso. Perfino quando – per quieto vivere – osserva le leggi del suo Paese, lo fa per pragmatismo, non per sincera adesione a tutti i loro dettati. Si riserva il diritto di dire al vigile urbano: “Ho imboccato un senso vietato e pagherò l’ammenda. Ma questo divieto è stupido”.
Queste stesso ragioni, vissute col segno meno, fanno sentire in colpa i giapponesi che hanno la tentazione di comportarsi liberamente. Un romanzo come “Il fucile da caccia”, di Yasushi Inoue, è pieno di questi slanci trattenuti, di queste parole non dette, di questi tormenti inconfessati. Fino a trasmettere al lettore un sentimento di angoscia costante, e perfino di sotterranea asfissia. Il torto dei giapponesi è quello di ritenere incontestabilmente valide le regole del loro vivere sociale. È sano inchinarsi ad esse quasi fossero sacre? L’obbedienza acritica alle regole dettate da altri non è una virtù. L’occidente ha inventato la democrazia perché, se Marsia è stato scorticato vivo per aver osato sfidare Apollo, è anche vero che gli dei non sono riusciti a piegare Prometeo e Capaneo.
Forse, psicologicamente, è più sano il mondo occidentale. Io sono ateo, non ho fiducia nell’amministrazione della giustizia, considero ogni sconosciuto un furfante (fino a prova contraria) e non stimo la morale corrente. E ovviamente non mi levo il cappello neppure dinanzi alle leggi, a cominciare dalla Costituzione. Tuttavia mi rimane l’onore occidentale e un’accettabile considerazione sociale, anche per la buona immagine che ho e voglio avere di me stesso. Posso anche essere considerato un law abiding citizen, uno che non viola le leggi, ma lo faccio per quieto vivere, non per fideistica adesione. L’unica fideistica adesione la riservo a me stesso, perché sono l’unico me stesso, finché sono vivo.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
31 marzo 2019

GIAPPONESITA’ultima modifica: 2019-03-31T17:37:33+02:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “GIAPPONESITA’

  1. Il carattere nazionale italiano, nelle sue forme migliori, è ammirevole. La nostra storia puo’ vantare personaggi notevoli, anzi notevolissimi. Ma oggigiorno questo nostro carattere nazionale assume troppo spesso negli individui della penisola forme caricaturali: esibizionismo, rissosità, opportunismo, volgarità, disonestà… Si direbbe che la TV abbia avuto un effetto disastroso sugli italiani, un po’ come l’alcol per gli aborigeni nordamericani.
    Purtroppo, dagli aspetti per molti versi caricaturali del fascismo siamo passati agli aspetti caricaturali dello “sfascismo”, con l’odio e avversione per un minimo d’ordine, di autodisciplina, di dignità nazionale e di senso della patria. Chi propone, infatti, questi valori è subito additato come un pericoloso nostalgico dei campi d’internamento e delle manganellate.
    Ma io non propongo di suonare la diana del nazionalismo, né faccio del facile moralismo “all’italiana”… Capisco perfettamente le cause dei nostri diversi atteggiamenti nei confronti della nazione. Io sono figlio di gente di confine, il confine nord-orientale… Cio’ spiega molto di me. C’è sempre una causa anzi molte cause che spiegano ciò che noi siamo… Ma io denuncio l’analfabetismo italiano in materia di sentimenti nazionali. Analfabetismo dovuto anche al dizionario italiano – come ho voluto mettere in evidenza in un post a Severgnini – che al contrario dei dizionari francesi e inglesi “fascistizza” ossia demonizza certi termini, come appunto fa con il termine “nazionalismo”. La conseguenza di questo analfabetismo è di credere che gli altri siano uguali a noi. Rischiando di offenderli… Vedi ad esempio i due italiani dell’Alto Adige che, tempo fa, dissacrarono in Thailandia la bandiera nazionale. Si giustificarono in tribunale dicendo: Non sapevamo… In Italia non si dà tutta questa importanza alla bandiera… O vedi anche lo schifoso insulto – “Orango” – che fu rivolto da Calderoli alla ministra Kyenge. Lui disse: ma io amo gli oranghi, non capisco perché debba sentirsi offesa…
    Almeno per certe cose il tipico giapponese farebbe bene a diventare un po’ italiano. Se non altro si sentirebbe un po’ piu’ rilassato. Inoltre lavorerebbe di meno. Ma sono certo che non diventerebbe mai un campione di assenteismo come in certi settori lavorativi lo sono gli italiani. Lui non firmerebbe mai il cartellino per l’amico assente. Gli italiani, invece, potrebbero ispirarsi a certe virtu’ giapponesi, cominciando dal non associare il termine “onore” alla malavita e alle “corna”, ma ai valori morali e alla patria.

  2. Bell’ articolo di GP e bella risposta di Claudio Antonelli. Ringrazio entrambi.
    Di soloto quando soddisfatto non faccio interveni, ma in questo caso voglio aggiungere un contributo estratto dalla mia esperienza di vita.

    Sono stato un esponente dell’ italianita’ individualista, irradiavo giudizio a tutto il circostante, poi l’ essere divenuto genitore mi ha portato ad un cambio radicale, addirittura una vera rivoluzione nella mia coscienza e valori sovrapersonali sono divenuto piu’ importanti di quelli personali.

    All’ epoca avrei riso con scerno dalla finestra sentendo concetti come identita di genere o vedere gente devastata dai tatuaggi e avrei detto che chi si vuole perdere faccia pure. Oggi invece sento di dover curare il pacchetto di eredita’ che lascio al mondo e non devo far mancare ai miei figli il mio esempio (liberi poi di sciuparlo) e protezione e se raggiunti da tale concetto con gran preoccupazione lo smentisco.

    Sono molti gli esempi. Comunque ho scoperto il valore del senso di appartenenza e pulsioni “eroiche” (non e’ detto che alla prova dei fatti poi sia all’ altezza del sacrificio)

  3. Nietzsche non può mai essere popolare, perché è difficile, è contraddittorio, è di un valore che va dall’infimo al supremo. Se si sa svalorizzare ciò che è positivo, è un autore “mentalmente” indispensabile. Se lo si vuole calunniare (o giudicare severamente) gli argomenti contro di lui, per così dire forniti da lui stesso, non mancano certo. In Giappone non credo che potrebbero apprezzarlo. Nietzsche “libera” le menti degli occidentali, già più libere di quelle giapponesi, figurarsi dunque quanto sia facile capirlo in Estremo Oriente. Fra l’altro lNietzsche era figlio di un pastore, sapeva bene che cos’è l’invadenza della religione, mentre la religione giapponese è estremamente lontana dal peso che può avere sulla psiche la religione luterana.

  4. Concordo. Proprio per questo mi era venuta spontanea questa osservazione: la sua rivendicazione di un pensiero che fosse del singolo individuo, in polemica contro la morale dominante e contro quello che lui definiva il gregge, sono quanto di più lontano si possa immaginare dai tratti della mentalità giapponese che lei ha così ben descritto.

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