UN GRANDE POPOLO

Nel famoso film di Ingmar Bergman, “Il posto delle fragole”, il vecchio medico, in procinto di andare in pensione, sogna di fare esami all’università e di non essere sufficientemente preparato. È un sogno che abbiamo fatto in parecchi, perché quasi tutti abbiamo vissuto le ansie di quei momenti. Momenti in cui sapevamo di giocarci in meno di mezz’ora il lavoro di mesi.
Per il film il geniale regista svedese ha acutamente scelto una “Domanda facile” (“Qual è il primo dovere di un medico?”), una di quelle domande per le quali l’esaminando dice a sé stesso: “Che bestia sono! Questo dovrei proprio saperlo!”. E invece. Per chi fosse curioso, la risposta degli esaminatori era: “Chiedere scusa”.
Ho vissuto qualcosa di simile nella realtà. Un professore di letteratura francese di cui ero momentaneamente l’assistente si dimostrava timido quando doveva dire ad un ragazzo che non aveva superato l’esame. Se quello insisteva, “Mi faccia un’altra domanda”, invece di dirgli, coraggiosamente, “Non perdiamo tempo, mi sono già formato un giudizio”, il professore gii chiedeva con aria serafica: “Mi parli della poesia francese del Settecento”. Una domanda di ampio respiro, facile, vero? E invece il ragazzo faceva scena muta, si alzava e il prof.B. passava all’esaminando seguente.
Il professore, in questo caso, era un po’ carogna. Infatti la prima volta che la scena si verificò, rimasti soli, gli dissi: “Ma professore, la poesia francese nel Settecento praticamente non esiste!”. E lui, placido: “Giusto. Ma il ragazzo non lo sapeva”. E così mi sono reso conto di avere assistito ad una scena ancor più riuscita di quella del “Posto delle fragole”.
Non è difficile immaginare scene imbarazzanti, per ciascuno di noi. Come diceva Pitigrilli: “A chiunque fa sfoggio di cultura, chiedete la capitale dell’Honduras”. (Tegucigalpa) O, aggiungo io, quella del Botswana (Gaborone). E sono anche concepibili domande per bambini delle elementari come questa: “Nella frase: ‘Stava un po’ curvo’ che cos’è ‘un po’, in analisi grammaticale?” Io risponderei avverbio, ma non sarei stupito se una maestra elementare mi dicesse che ho detto un’enormità. Soprattutto da quando ho saputo che, nella frase: “Siamo rimasti in pochi”, “pochi” è pronome indefinito.
È giocando con queste domandine perfide che me ne sono posta una anch’io: “Che cosa ha fatto [o fa] che i xxxxxx siano [stati] un grande popolo?” Al posto delle “x” si può mettere romani, greci, inglesi, giapponesi, quello che si vuole. La domanda è generale. Ma la risposta qual è?
Naturalmente, ciò che ci spinge a definire “grande” un popolo sono i suoi risultati. Sicché lo stesso popolo, sullo stesso territorio, può essere grande in un certo momento storico (la Grecia nel V secolo a.C.) e inesistente un millennio dopo.
La grandezza di un popolo non è un dato fisico, costante, della “razza”, avrebbe detto Hitler. Perché fisicamente i greci del V Secolo a.C e quelli del XV Secolo d.C., sono più o meno identici. E lo stesso vale per i romani, per gli inglesi, per tutti. Si arriva al colmo dei cinesi che, sotto il comunismo, morivano letteralmente di fame, a milioni, e sotto il capitalismo economico sono divenuti forse la prima potenza mondiale. E ciò a distanza di meno di un secolo. Cose che possono anche provocare il mal di testa.
Dunque un grande popolo non è grande a titolo definitivo. È grande finché dura un certo tipo di civiltà “di successo”. Gli spartani di oggi (Sparta esiste ancora) non sono più guerrieri di quanto gli abitanti di Lentini (Siracusa) siano sofisti come Gorgia. Il tempo passa e le evidenze di un periodo storico divengono nozioni delle persone colte e nulla più. Cosicché, anche se noi calpestiamo un suolo che ha dato due civiltà, quella romana e quella del Rinascimento, non per questo siamo degni dell’una o dell’altra.
La domanda a poco a poco si restringe: “Che cosa fa sì che un determinato popolo, in un determinato momento della sua storia, si comporti in modo da essere definito grande?”
La mia risposta parte dall’individuo. Oggi a Sparta ci sono soprattutto pacifici contadini ma ciò non impedisce che, fra loro, ci possa essere un individuo dalle qualità personali tali che, dandosi l’occasione, potrebbe dimostrarsi un guerriero degno di Leonida. Ma questa eccezione non sarebbe sufficiente a far dire che oggi Sparta sia “una città di guerrieri”. Dunque ciò che rese Sparta famosa, nell’epoca classica, non fu il fatto che ci fosse qualche grande guerriero, per eccezione, ma il fatto che grandi guerrieri erano tutti gli spartiati. Né la cosa è stupefacente. Essi infatti vivevano della fatica degli schiavi ed erano a tutti gli effetti dei professionisti della guerra. Tutti.
Un grande popolo è quello in cui alcune qualità positive non sono appannaggio di singoli, ma praticamente di tutti. Perché tutti le sentono come assolutamente naturali e dovute. Si pensi al comportamento dei romani dopo la sconfitta di Canne. I giapponesi sono sempre stati formidabili, in battaglia, perché il loro concetto di onore gli ficca nel cervello l’idea che è meglio morire che essere considerati vili. Per la stessa ragione, dal momento che è contro l’onore comportarsi in maniera miserabile (rubare, mentire, copiare a scuola, ecc.) molti di loro sono modelli di uomini. E il risultato è che il Giappone, esteso quanto l’Italia, è una grande potenza mondiale.
Un grande popolo è un popolo che, in un dato momento storico, ha un super-io sufficientemente diffuso perché, in un certo campo, alcuni comportamenti positivi divengano la regola.
Diamo un esempio di segno opposto. Triste, dal momento che riguarda noi italiani, ma spero sia chiaro. Noi siamo degli individualisti ai quali non importa nulla del prossimo. Poi ci lamentiamo perché lo Stato ci governa male e,dimentichiamo che, se il singolo è quasi privo di spirito civico e di senso del dovere, anche la massa alla fine non avrà né senso civico né senso del dovere. Il singolo è molto scontento della collettività cui appartiene, ma la collettività è composta di individui che gli somigliano fin troppo. In Giappone nessuno trova normale copiare a scuola, e in Italia?
Gli inglesi hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale non soltanto perché li comandava un bulldog come Winston Churchill, ma perché in quel momento gli inglesi erano risoluti a battersi fino all’ultimo uomo ed anche fino all’ultima donna. Un anziano inglese mi disse una volta che, se i tedeschi fossero riusciti a sbarcare, sarebbero morti tutti perché loro avrebbero avvelenato i pozzi. “Ma sareste morti anche voi”, gli obiettai. “Sì, rispose lui, ma anche loro”. Forse delirava, ma rimane difficile invadere un’isola che ragiona così. L’Inghilterra del 1940 ha toccato l’apice della sua storia, ma in seguito da quell’apice ha declinato. E parecchio.
La rassegnata conclusione è che non si può far nulla per cambiare un popolo. In ogni singolo momento, è quello che è. Ecco perché il fascismo è stato una pagliacciata, con la sua mania delle divise, dei gagliardetti, e delle carnevalate militari. Mussolini voleva risuscitare i romani antichi, e forse c’è riuscito, solo che ha risuscitato quelli sbagliati, quelli del V Secolo d.C.
Un grande popolo non è un prodotto artificiale e non ha spiegazione. È come un deserto che, dopo una delle rarissime piogge, si ricopre di fiori. Ma poi ritorna l’interminabile siccità.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
7 maggio 2021

UN GRANDE POPOLOultima modifica: 2021-05-12T08:34:13+02:00da gianni.pardo
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