Marchionne, la Fiat e l’aritmetica

Può darsi che lo spazio sia curvo e che la materia possa trasformarsi in energia: ma non c’è genio di Einstein – o barba di profeta – che possa cambiare la tavola pitagorica. Questo vale anche per l’economia: se si spende più di quanto si guadagna, o si smetterà presto di spendere o qualcuno ci dovrà mettere la differenza.
I fatti sono noti. Sergio Marchionne ha dichiarato che la Fiat non fa profitti in Italia ed è inconcepibile tenere aperte fabbriche che operano in perdita. Apriti cielo. Da ogni parte (anche da Gianfranco Fini) gli si è ricordato che lui non può e non deve parlare come se fosse canadese e non italiano; che la Fiat in passato ha ricevuto consistenti aiuti dallo Stato; che essa non può chiudere, in Italia, perché è italiana perfino nel nome, (Fabbrica Italiana Automobili Torino); che alcuni sindacati gli hanno aperto un grande credito… Tutte risposte fuori tema. Fra l’altro è inutile parlare dei sindacati che collaborano, se si pensa che ne basta uno per bloccare la produzione. E quest’uno è la Fiom.
L’unica risposta valida che si può dare a Marchionne, se si può, è che la Fiat fa profitti in Italia; e se questo non è sostenibile, è inutile dargli addosso. Se un’impresa con le sue fabbriche ci perde, o chiude o lo Stato ripiana i debiti. A spese dei contribuenti. Non importa se Marchionne si esprime da patriota o da canadese e se in passato lo Stato ha aiutato la Fiat. Quando lo ha fatto ha sbagliato e non si vede perché dovrebbe sbagliare un’altra volta. Comunque la si metta, si va a sbattere il muso su una semplice evidenza: se un’impresa opera in perdita, finirà col gravare sulle tasche dei cittadini.
È anche inutile sostenere che la Fiat non fa profitti perché è guidata male. Anche ad essere vero, il Chief Executive Officer deve avere la fiducia degli azionisti, non dello Stato italiano. E lo Stato non ha il potere di rimuoverlo. La Fiat stessa può essere costretta a rimanere in Italia solo se viene nazionalizzata, con una mossa alla Fidel Castro, ed essendo poi il governo disposto – lo si ripeterà all’infinito – a farla operare in perdita, a spese del contribuente.
Fra l’altro c’è da prevedere che una così grossa impresa, se guidata con la ben nota efficienza degli Enti pubblici, avrebbe perdite ancora più grandi di quelle che ha attualmente.
Né si può dire che – come subito affermeranno gli economisti del cuore – dal momento che fa profitti all’estero, potrebbe tenere aperte le fabbriche in Italia con quei soldi. Questa è una proposta degna della San Vincenzo de’ Paoli. La Fiat è un’impresa privata, non un ente di beneficenza. Se fa profitti in Brasile, è giusto che essi vadano a coloro che per realizzarli rischiano il loro denaro in Borsa, e cioè gli azionisti. Se Marchionne facesse un’operazione simile sarebbe un amministratore infedele e probabilmente verrebbe cacciato via.
Ci sono verità che, come la tavola pitagorica, sono chiare anche alle madri di famiglia: se la Fiat non fa profitti, o chiude, o rimane aperta facendo aumentare la pressione fiscale.
Gianni Pardo
giannipardo@libero.it
25 ottobre 2010

Marchionne, la Fiat e l’aritmeticaultima modifica: 2010-10-25T16:12:38+02:00da gianni.pardo
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