IL SINDACALISTA A CAVALLO

I sindacati hanno favorito i lavoratori? Sembra una domanda stupida, dal momento che sono nati proprio per questo. Ed è vero che prima non c’erano i sindacati e i contadini e gli operai erano sfruttati come animali da soma, poi ci sono stati i sindacati e i lavoratori hanno avuto retribuzioni meno miserabili. Ma ciò non significa che i due fenomeni storici siano l’uno la causa dell’altro: una sequenza cronologica non è necessariamente una sequenza causale.

Galileo Galilei, nel formulare i principi del metodo scientifico, ha raccomandato lo scrupolo nell’identificazione delle cause. Se ogni mercoledì si è fatto un certo esperimento a caldo, e facendolo a freddo di giovedì non riesce, bisogna vedere se la causa dell’insuccesso sia la temperatura o il giorno della settimana. Bisogna ripetere l’esperimento a freddo di mercoledì e a caldo di giovedì. 

È vero che i sindacati hanno ottenuto patti migliori per i lavoratori: ma ci si può chiedere se la possibilità di concederli era sempre esistita – e ai lavoratori non erano stati concessi – oppure se, con o senza i sindacati, sono stati concessi quando è stato possibile concederli. I miglioramenti sono dovuti ai sindacati o al progresso economico?

Prendiamo l’orario di lavoro. Nell’economia primitiva la produttività è così bassa che si sopravvive lavorando da mane a sera. È stato così per millenni. Quando la produttività si è elevata, sono invece cambiate le condizioni oggettive: non è stato più necessario lavorare per dodici ore al giorno, perché in otto si produceva sufficiente ricchezza per far vivere il prestatore d’opera e rendere conveniente il pagamento del suo salario. La prima condizione per ottenere un orario di lavoro diverso non è stata il modo di chiederlo, ma il quantum di ricchezza prodotta in quel tempo. I sindacati non avrebbero “creato” le conquiste dei lavoratori ma si sarebbero semplicemente fatti interpreti delle mutate condizioni produttive. 

Che la condizione dei prestatori d’opera dipenda più dalla situazione economica che dall’ideologia si è visto anni fa in Giappone. A lungo i suoi operai sono stati presi in giro, in Italia, perché cantavano l’inno dell’impresa e non scioperavano mai. La leggenda li avrebbe voluti schiavi stupidi come formiche. In realtà il Paese cominciò a produrre ricchezza, arrivò ad essere la seconda economia del mondo  e i lavoratori divennero benestanti. È molto più importante produrre ricchezza che pensare a come distribuirla. Né diversamente vanno le cose nella Cina attuale. Qui i salari sono bassi, i sindacati non contano ma nessuno soffre la fame come ai tempi di Mao, i grattacieli sorgono come funghi, le automobili, un tempo una rarità, aumentano drammaticamente e il livello di vita è molto migliorato. 

La regola ha avuto conferme anche in Europa. I sindacati dei metalmeccanici tedeschi, pur di ottenere che alcune grandi imprese non spostassero la loro produzione all’estero, hanno accettato riduzioni di salario. In Italia gli operai della Fiat, checché dicessero i sindacati, hanno capito che o accettavano modelli produttivi diversi o perdevano il lavoro. Perché anche la Fiat avrebbe “delocalizzato”.

Le leggi dell’economia sono implacabili anche per quanto riguarda l’occupazione. Se i salari sono più alti di ciò che sarebbero in regime di libera contrattazione, chi ha un lavoro farà di tutto per non perderlo (si veda la venerazione per l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori) e chi non l’ha non l’otterrà: perché il mercato può assorbire solo quei lavoratori che non si rischia di avere in soprannumero e che producono tanta ricchezza da compensare gli errori strutturali del modello produttivo. I lavoratori saranno così divisi in occupati, con vantaggi superiori a quelli che meritano, e sottoccupati o disoccupati, della cui disperazione nessuno si curerà. Tutto questo mentre prospera il mercato nero del lavoro, in  particolare quello degli immigrati.

Una libera economia è l’arma migliore per contrastare la disoccupazione e gli abusi a carico dei dipendenti. Se c’è lavoro, e un operaio è trattato male dall’imprenditore, andrà a lavorare da un altro. Se non c’è lavoro, sarà spesso assunto come precario, dovrà sempre chinare la testa e perfino firmare sottobanco patti contrari ai suoi diritti. La rigidità del mercato incrementa la disoccupazione invece di diminuirla.

Il lavoro è regolato dalle leggi della domanda e dell’offerta, come gli altri, e volendone turbare l’andamento naturale si distrugge ricchezza. L’unico prezzo giusto di qualunque bene o prestazione è quello determinato dall’autoregolazione economica, evitandone le distorsioni (per esempio con le leggi antitrust). Ecco perché un  Paese privo di risorse naturali, come la Svizzera, dei cui sindacati non si hanno notizie, è più prospero di un Paese come l’Italia, in cui ci sono dei sindacalisti, come Giorgio Cremaschi, che tendono ad assumere atteggiamenti da Bartolomeo Colleoni a cavallo. Per poi guidare le grandi masse verso la disoccupazione.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, www.DailyBlog.it

27 dicembre 2011

 
IL SINDACALISTA A CAVALLOultima modifica: 2011-12-27T11:36:40+01:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo