FIAT, UN’IMPASSE SINDACALE

Come si ricorderà, la Fiat ha aperto uno stabilimento a Pomigliano d’Arco, assumendo duemila operai. La magistratura, dal momento che fra gli assunti non c’erano operai iscritti alla Fiom, ha stabilito che l’impresa ha operato una illecita discriminazione e per questo le ha imposto di assumere 145 operai iscritti a quel sindacato. Ora la Fiat si appresta ad assumere un primo gruppo di diciannove “discriminati”, ma nel frattempo ha avviato la procedura per mettere in mobilità (licenziare) altri diciannove operai. Naturalmente li sceglierà seguendo i precisi criteri disposti dalla legge per i licenziamenti collettivi non ingiustificati, ma certo metterà sul lastrico dei lavoratori. E così procederà per i restanti 126.

Quando fu pubblicato il dispositivo della sentenza, feste. Ora che bisogna far posto ai nuovi assunti, protestano gli operai, i giornali, i politici e i sindacati. Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Associazione Quadri chiedono incontri alla Fiat e interventi del governo. Licenziare diciannove operai? Assurdo. 

Secondo le attuali norme, il licenziamento collettivo non è vietato ma, a causa del numero degli interessati, desta più allarme sociale del licenziamento di un singolo. Dunque la legge lo regola minutamente, affinché siano applicati criteri ragionevoli nella scelta dei malcapitati e soprattutto affinché il provvedimento sia oggettivamente giustificato. Il requisito essenziale si riassume nel fatto che effettivamente l’impresa non abbia bisogno di quei lavoratori. Mentre da un lato non si può imporre ad un’impresa di pagare lavoratori che non le sono necessari, dall’altro non le si deve permettere di licenziare senza giustificato motivo economico, magari per motivi disciplinari o antisindacali.

Lo stabilimento di Pomigliano ha bisogno di duemila operai. Ciò è dimostrato dal fatto che in tempo non sospetto ne ha assunto duemila e non più. Dunque, licenziandone diciannove e assumendone diciannove, non attua una riduzione della forza lavoro: la mantiene qual era. Si cambiano soltanto alcune persone. E ciò, si badi, è quanto poteva chiedere ed ha chiesto la sentenza. La motivazione della sentenza è la discriminazione, non l’insufficiente numero di operai. L’equilibrio dunque si ristabilisce con un’operazione opposta, con una sorta di “risarcimento in forma specifica” (art.2058 C.c.): si tolgono alcuni degli ingiustamente favoriti e si mettono al loro posto alcuni degli ingiustamente esclusi.

Per le “discriminazioni”, potendo, bisognava fermare l’impresa al momento dell’assunzione: ormai è troppo tardi. Essa infatti ha risposto alle proteste dicendo che assumerà tutti se l’impresa avrà bisogno di più operai. Come no? Ma in assenza di questo prodigio, o si accettano i 145 licenziamenti o si cerca di imporre alla Fiat (in questo senso abbiamo una totale “fiducia” nella magistratura) di dare una paga mensile a duemilacentoquarantacinque lavoratori. Calcolando per ipotesi che ogni operaio costi al mese tremila euro, 3.000€ x13 mesi x 145 fa 5.655.000 €. Qualcuno pensa che la Fiat produrrà più automobili di quelle che assorbe il mercato per lasciarle arrugginire nei piazzali? O che si sobbarcherà una simile spesa? È più probabile che chiuda. 

Vediamo l’origine della vertenza. Un’impresa, quando assume un dipendente, ha il diritto di scegliere in base all’ “intuitus personae”: se così non fosse non ci sarebbero né i curricula né i colloqui. Dunque in linea di principio la Fiat aveva diritto di assumere chi voleva. Ammettiamo ora che l’intuitus personae non funzioni per gli operai e che la Fiat, discriminando gli iscritti alla Fiom, abbia avuto un comportamento antisindacale. In questo caso la magistratura ben può imporre che ne assuma un certo numero ma non può imporre che li assuma “in aggiunta” agli operai già assunti. Ciò attribuirebbe alla magistratura il potere di determinare la forza lavoro di un’azienda e se così fosse, nessuna impresa si costituirebbe più, perché non potrebbe calcolare in anticipo costi e ricavi. E quelle esistenti, avendo meno bisogno di operai, non potendo licenziare si limiterebbero a chiudere.

È un vicolo cieco. I sindacati “non sentono ragioni”. Non dicono chi pagherà per i 145 operai in più e invocano semplicemente l’esecuzione della sentenza. La Fiat non si può permettere 2.145 operai invece di 2.000 e dunque o le si permette di licenziare quelli in più oppure chiude i battenti. Naturalmente, se interviene San Gennaro e il mercato riparte a razzo, tutto si aggiusta. 

Il difetto è nel manico. L’impresa non deve discriminare nessuno o al massimo i meno bravi; i sindacati non devono fare la guerra all’impresa, fino a rendersi invisi e “discriminati”. I magistrati infine dovrebbero ricordare che, fino a nuovo ordine, esiste la libertà d’impresa. Invece i sindacati pensano di essere ai tempi di Di Vittorio e i magistrati credono di cambiare la realtà con un fiat o con la verga di Mosè. Creando più problemi di quanti ne risolvano.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

5 novembre 2012

 
FIAT, UN’IMPASSE SINDACALEultima modifica: 2012-11-06T09:18:52+01:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “FIAT, UN’IMPASSE SINDACALE

  1. licenziare per assumere e’ una ripicca contro la sentenza della magistratura, fatta da un uomo che si sente un padreterno ed in realta’ e’ un cafone rampante del chietino e non c’e’, mi creda, bestia piu’ feroce del villico civilizzato. Marchione e’ cresciuto nei circoli di operai italiani di detroit e li ha sfruttati per i consensi che gli servivano per rampare.inoltre a lui della fiat non gliene frega niente: e’ stato chiamato dai viziosi agnellini per liquidarla

  2. Mi chiedo quanto la disciplina corrente dei licenziamenti e delle assunzioni (e anche il commento sopra) risenta del mito della crescita economica infinita, per cui un’azienda, o un’intera societa’, non possa che vedere sempre aumentato il suo prodotto, basta che lo voglia, mito che al di la’ delle espressioni verbali contrarie, sembra scolpito nel nostro animo.
    Mi sembra che la societa’ attuale, nonostante la decrescita economica sia argomento del giorno, quando non la “decrescita felice”, si comporti in tutto e per tutto (pensioni facilmente elargite, spesa e quindi debito pubblico in costante aumento) come se il trend percentuale di crescita sia, e debba essere per sempre, quello dell’immediato dopoguerra, periodo in cui, grazie alla crescita a quasi due cifre sia dell’economia che della popolazione, qualunque errore economico veniva automaticamente corretto e perdonato, e le tasse non erano necessarie se non in minima misura (suppongo che se l’economia cresce del tot per cento, lo stato possa, anzi debba stampare moneta in eguale proporzione senza creare inflazione, cosi’ da coprire a costo zero per i cittadini le sue spese, o pagare il suo debito).
    La decrescita, forse piu’ da saturazione dei bisogni, piu’ da direzione di sviluppo che si perde nella nebbia, piu’ da vera crisi esistenziale, che da costrizioni esterne, c’e’, e come individui la viviamo e la percepiamo bene, ma come la societa’, e come stato, ci comportiamo come se fosse il contrario.
    Mi chiedo, infine, se e quanto ci sia di automatico e ineluttabilmente umano in questa parcezione, insomma se questo atteggiamento sia modificabile senza distruggere gli animi, la speranza, il futuro.

  3. “Commento sopra”,intendevo il primo, ovviamente.
    Che la realta’ punisca chi non ne tiene conto, d’altra parte, e’ tautologico: si scopre quale sia, forse, a posteriori, e non e’ che serva molto, a quel punto, tenerne conto, se non a consolazione.

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