LAGERFELD ESAGERA, MA NON TROPPO

Karl Lagerfeld, lo stilista, si confessa innamorato della sua gatta bianca Choupette. Ha bisogno di avere sue notizie, comprovate da fotografie, se per caso è in viaggio, l’ha nominata erede e rimpiange di non poterla sposare. Questa notizia farà sorridere molti e interesserà anche qualche psichiatra. E tuttavia, fra quelli meno autorizzati a sorridere di Lagerfeld, ci sono io. Che non mi sarei reso ridicolo per amore della mia Grif, e non l’avrei nemmeno nominata erede, ma ho sofferto quando, in occasione della separazione, la mia prima moglie decise d’autorità che la micia le toccava per diritto felino, immagino, e se la portò in Francia. E poi non potrei neanche dirmi innamorato di quella bestiolina perché è morta da ben oltre vent’anni. Ma qualche dovere di solidarietà con Lagerfeld mi rimane.

Qualcuno può trovare incomprensibile l’enorme stima che parecchi hanno per i gatti. E non c’è da stupirsene. Basta non averne avuto e non avere mai tentato di comprenderli. Se non si conosce il tedesco non si può ridere di una barzelletta raccontata in quella lingua. E il paragone con un “linguaggio” che non si conosce è proprio quello che qui serve. Per comprendere a fondo la grande musica, bisogna avere tendenza per quest’arte (ci sono persone sorde a Bach come gli erbivori sono insensibili al fascino della carne) e avere dedicato un infinito numero di ore al piacere di ascoltarla devotamente. Il profano si stupisce vedendo che l’appassionato è capace di commuoversi fino alle lacrime ascoltando per la centesima volta la stessa sinfonia, lo stesso quintetto, perfino soltanto una sonata per violino e pianoforte come quella di César Franck. L’appassionato di musica non inventa nessuna delle delizie di cui gode: sono i sordi che non hanno orecchie per percepirle.

Nello stesso modo, quando si tratta di comprendere i gatti, il primo ostacolo è che per la maggior parte delle persone essi sono animali utili ad acchiappare topi o a servire da silenzioso soprammobile in casa. Per ragioni culturali li si mette fra i mammiferi più intelligenti, come i cani, ma di malavoglia. Il cane fa di tutto per parlare la nostra lingua e dunque è come uno straniero cordiale che si esprima a gesti. Il gatto è uno straniero aristocratico che non tiene affatto a mettersi in contatto con gli indigeni. Da noi accetterebbe regali, per risparmiarsi la fatica di procurarsi ciò che desidera, ma ciò non autorizza nessuna confidenza, da parte nostra. A meno che…

A meno che, appunto, non siamo noi che ci diamo la pena di studiare la sua mentalità e la sua lingua, nel modo più rispettoso e discreto. In questo caso, può anche darsi che ci conceda la sua amicizia. E non è onore da poco.

Se le condizioni sono quelle giuste, il gatto ha l’occasione di dimostrare la superiorità della sua natura sulla nostra. Nella sua mente non c’è spazio per molte cose che noi reputiamo “naturali” e che rendono la nostra vita più difficile. Innanzi tutto non ha bisogno degli altri. In natura è un essere autonomo e la solitudine gli sembra la condizione più ovvia. La psicodipendenza non sa che cosa sia. Ecco perché la sua amicizia non è invadente e conserva sempre un certo distacco. Quel piccolo gentiluomo da un lato non si impone mai, dall’altro non permette a nessuno di imporgli qualcosa. Se ha deciso di andarsene, non sopporta che lo si tenga.  La libertà per lui non è né un dovere né una conquista: è un istinto. Se desidera qualcosa, al massimo la propone, ma se gli si dice di no non insiste. Naturalmente a meno che non sia affamato, ma allora la sua insistenza dipende dall’istinto di conservazione.

Il gatto è caratterizzato dall’assenza di violenza. È un cacciatore ed un carnivoro, dunque mangia topi, uccelli, tutto ciò che gli serve per sopravvivere, ma la sua è una violenza tecnica e giustificata. Senza motivazione e senza senso (come i cani che corrono abbaiando dietro le automobili) non si strapazzerebbe mai. Per lui è anche inconcepibile quella violenza intraspecifica di cui noi umani siano dei campioni, con la guerra. Salvo le zuffe per ragioni territoriali o in caso di concorrenza per una femmina, non arriva mai alle vie di fatto, che comunque non conducono alla soppressione dell’altro. In natura – se gli spazi sono sufficienti – gli scontri sono del tutto infrequenti; in città – se c’è cibo per tutti – si mangia placidamente dalla stessa scodella.

Se si studia un gatto intelligente, se ne ricava l’impressione che in tre o quattro chili si condensi la migliore filosofia. Il micio non fa nulla d’irrazionale, di stupidamente violento o di rumoroso. Cerca di godersi la vita col minimo sforzo. Può sembrare stupido se corre dietro a un gomitolo, ma da un lato sa benissimo di star giocando, dall’altro quel gioco è un allenamento per la caccia. È naturalmente pulito ed elegante, e mamma gatta è assolutamente un modello nella cura e nell’educazione dei piccoli. Coniuga un amore che va fino al sacrificio personale con la giusta severità, rappresentata da consistenti scappellotti. Alla fine l’essere umano arriva a comprendere che, come temperamento, i gatti sono pari al più saggio dei filosofi. Probabilmente è lui che non è alla loro altezza: con i suoi problemi, i suoi conflitti, i suoi complessi, i suoi scrupoli e le sue reali colpe. Il micio soddisfatto, che lo guarda socchiudendo gli occhi, è come se gli dicesse: “È un peccato che tu non sia un collega. Sapessi come è bello, godersi questo sole”.

Gianni Pardo, pardonuovo@myblog.it

10 marzo 27 2015

LAGERFELD ESAGERA, MA NON TROPPOultima modifica: 2015-03-10T19:12:18+01:00da gianni.pardo
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