L’ÉLITE NON È PEGGIORE DEL POPOLO

Il diritto processuale civile è stato per me una tale noia, che a momenti rinunziavo a laurearmi in giurisprudenza. E tuttavia un brocardo latino mi è rimasto fisso in mente come un ammonimento da non perdere mai di vista: “audiatur et altera pars”, si ascolti anche la controparte. A tal punto che, di fronte ad ogni tesi, incluse le mie, mi sforzo di immaginare ciò che potrebbe dire chi la pensa in modo opposto.
Ora un articolo di Ernesto Galli della Loggia(1) sollecita il mio istinto di “avvocato del Diavolo”. In un pregevole testo, in cui esprime molte opinioni assolutamente condivisibili, che val la pena di sintetizzare, egli sostiene che l’attuale successo dei partiti populisti nasce anche da un “sentimento di ostilità e di rivolta da parte di vasti strati dell’elettorato contro le élite”. Questo atteggiamento trova un terreno fertile su un fenomeno eterno per il quale è inevitabile che il governo popolare “e le élite in quanto tali siano due cose in naturale rotta di collisione”. Ma “le moderne società complesse senza élite non possono funzionare”. Dunque sarebbe normale che, anche in democrazia, il popolo ne accetti la guida, ma “a una condizione: che le élite siano élite non del privilegio o della nascita bensì del merito”.
Purtroppo in Italia le posizioni di privilegio, all’interno delle élite, tendono ad avere “un carattere sempre più odiosamente ereditario. Il principale titolo d’accesso è diventato essere figlio di”. Nel personale così scelto, “non sempre il merito è assente”, ma le raccomandazioni “in troppi casi costituiscono il solo titolo preferenziale”. Il risultato è che, contrariamente a quanto avvenuto nel primo trentennio repubblicano, l’ascensore sociale si è bloccato.
Parole sante. Ma l’Avvocato del Diavolo ha parecchio da dire. In primo luogo, se l’élite tende alla cooptazione, attraverso un complesso e labirintico sistema di raccomandazioni, e sostanziale corruzione, è perché questo carattere non è soltanto suo, ma nazionale. Non si può immaginare da una parte un popolo virtuoso, intento a premiare soltanto il merito, e dall’altro un’élite corrotta, che pensa soltanto al proprio benessere e a quello dei suoi familiari e amici. In realtà il popolo non è affatto alieno dal ricorrere ai metodi dell’élite e, se li usa di meno, non è per mancanza di buona volontà. Ai tempi della Democrazia Cristiana – ma può darsi che sia ancora così – i deputati dovevano stipendiare persone esclusivamente addette a rispondere alle richieste di raccomandazione di ogni genere, sempre promettendo, senza compromettersi, “ogni possibile aiuto”, e viceversa raccomandando sul serio, e in modo pressante, le persone da cui si poteva ricevere qualche vantaggio, o qualche gruzzolo di voti. E i popolani che si rivolgevano al deputato che cosa chiedevano, se di non essere assunti, per un posto di operaio del Comune, a preferenza di qualcuno che aveva più titolo di loro? L’ipotesi di un’élite corrotta contrapposta ad un popolo virtuoso va risolutamente esclusa. Qui non c’è molto da scegliere, c’è molto da perdonare.
Ma è interessante la notazione dell’editorialista secondo il quale le cose sono andate meglio nel primo trentennio repubblicano. Allora gli italiani erano più morali? Francamente è inverosimile. E infatti esiste una spiegazione molto più semplice.
Quando l’Italia uscì dalla guerra, si dedicò con ardore alla ricostruzione. Nel breve volgere di un paio di lustri realizzò una prosperità mai vista prima, tanto che si parlò di “miracolo economico”. Ma tutto ciò durò finché la sinistra non cominciò a partecipare al governo, quando la Democrazia Cristiana aprì al Partito Socialista, nel 1963. Da quel momento la deriva sinistrorsa andò accentuandosi, i sindacati facevano il bello e più spesso il cattivo tempo, finché nel 1976 si temette il sorpasso del Pci sulla Dc, e il passaggio dell’Italia nel campo del socialismo reale. Il pericolo fu scongiurato dalle elezioni di quell’anno, ma il Paese, ormai dominato dalla “concertazione” fra Dc e Pci, cominciò ad inabissarsi in un vorticoso e sempre crescente debito pubblico, mentre la produttività italiana calava e di miracolo economico non si parlò mai più. Il felice periodo del liberismo economico italiano era finito per sempre, e al Pci certo la cosa non poteva importare molto, perché non tendeva a guarire il Pae se dai suoi mali, ma alla “crisi finale del capitalismo” e alla rivoluzione proletaria.
Tutto questo sembra entrarci poco con le élite e tuttavia ne spiega l’involuzione. Quando l’economia va bene, e la disoccupazione è bassa, tutti i datori di lavoro si contendono i lavoratori migliori. Dunque il merito è apprezzato. Invece, quando l’economia ristagna, la lotta per il posto di lavoro diviene al coltello e chiunque può barare bara. Anche se merita di fare carriera, il figlio del professore universitario sa che non la farà se suo padre non l’appoggia pesantemente, partecipando ad un mercato delle vacche per cui “Io faccio nominare tuo figlio e tu fai altrettanto col mio”.
Ciò ha fatto sì che, presto – come giustamente scrive Galli della Loggia – la raccomandazione ha prevalso sul merito, perfino quando il merito c’è. Quando andavo all’università, ero amico di Mario Condorelli, il figlio del senatore e rettore della nostra gloriosa Università. Mario studiava come un forsennato e andava avanti a base di trenta e lode. E che dicevano gli studenti? “E vorrei vedere che i colleghi non diano trenta e lode a Mario Condorelli!” Ed io mi sgolavo a ripetere che erano più meritati i suoi trenta e lode che i miei ventotto. Ma quella era già la mentalità, ed eravamo nel trentennio positivo, secondo l’editorialista.
Se il nepotismo è meno grave negli Stati Unici che da noi non è perché in quel Paese siano tutti molto scrupolosi, è perché quasi non c’è disoccupazione e l’economia, in confronto alla nostra, va benissimo. La fame è una pessima consigliera anche in campo morale.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

1° gennaio 2019
(1)https://www.corriere.it/opinioni/18_dicembre_30/elite-senza-ricambio-27d7f932-0c6a-11e9-a68b-18db728c9ce6.shtml

L’ÉLITE NON È PEGGIORE DEL POPOLOultima modifica: 2019-01-01T12:59:18+01:00da gianni.pardo
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4 pensieri su “L’ÉLITE NON È PEGGIORE DEL POPOLO

  1. Prof.articolo condivisibile il Suo,così come le deduzioni di Galli della Loggia,ma di difficile svolgimento perchè mette a nudo pregi e difetti del nostro popolo.Noto nella società odierna una mancanza di dignità e buonsenso di cui le èlite sono state fautrici,i loro titoli accademici li hanno esonerati da qualsiasi responsabilità,facendoli portatori di semantica senza la risoluzione dei problemi che i loro titoli potevano risolvere. E vero i popolani al potere sono peggio delle èlite(esperienze personali) ma la loro colpa è di averci marciato sù queste dicotomie. I soldi per comprare voti sono finiti,e poi basta guardare il nostro establishment industriale-finanziario-politico per capire tutto. Saluti Ciro

  2. Al di là del fatto che un noto pensatore circa un secolo fa sottolineava l’importanza della “circolazione delle èlites”, forse è il caso di aggiungere all’intelligente articolo l’inconsistenza delle teorie complottiste oggi in piena fioritura tendenti ad accusare di ogni male presente e futuro l’opera di misteriose Elites apolidi in grado di dominare dalla propria ‘turris eburnea’ nientemeno che l’intero Mondo contemporaneo e la straordinaria complessità/complicatezza delle Società odierne.
    Ovviamente ciò NON significa affatto negare l’esistenza di ‘poteri forti’ (economico-finanziari, politici, religioso-confessionali, culturali, massmediatici, ecc.) in grado di esercitare condizionamenti di vario tipo davvero rilevanti, ma da qui alle più ardite/spericolate tesi “gomblottiste” contemporanee (amenità come le famigerate ‘scie chimiche’ comprese) davvero il passo mi sembra enorme… Saluti

  3. Il nepotismo è meno grave negli Stati Uniti perchè la spesa pubblica è il trenta per cento del PIL, non il cinquanta come da noi, risultato di una cultura orientata alla responsabilità individuale piuttosto che al welfare state .

  4. Se un imprenditore che opera nel mercato accetta una raccomandazione non si può parlare di nepotismo, sono affari suoi. Non è lo stesso se siamo nell’ambito della Pubblica Amministrazione.
    In Italia la spesa pubblica era del trenta per cento nel 1960 arrivando al cinquantatre nel 1990 con un andamento peraltro simile ad altri paesi europei.
    In un paese caratterizzato da familismo amorale il risultato è esiziale.

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