IL PAVONE E LE SUE PENNE

Oggi in Italia si dice che ci sono più scrittori che lettori. E benché l’esperienza concreta faccia poi di tutto per scoraggiare le loro velleità letterarie, gli scrittori sono in aumento, al punto che esiste una piccola industria che vive della loro ingenuità.
L’impulso a scrivere è veramente forte, e merita un’analisi.
A parte coloro che scrivono perché non hanno idea di quanto sia difficile; a parte coloro che approfittano della notorietà del loro nome per ingaggiare un ghost writer, munito della necessaria tecnica, e così anche loro “pubblicano un libro”. A parte costoro ed altri ancora, ci sono coloro – e sono molti – che, per numero di letture e per carriera scolastica, possono considerarsi qualificati per scrivere.
Infatti lo scrittore di cui qui si parla è lo scrittore artista. Un pavone che – felice coincidenza della lingua – è pieno di penne meravigliose, senza le quali si sentirebbe un gallinaccio qualunque. E se non facesse la ruota, della bellezza di quelle penne nessuno avrebbe notizia. Ma non è spinto soltanto dalla vanità. È vero, vorrebbe che l’ammirazione che sente per sé stesso fosse sentita e legittimata dagli altri, ma vorrebbe anche condividere il sapore della vita come lui la percepisce, la bellezza che lo incanta, e regalare emozioni estetiche. In questo senso qualunque scrittore, anche il più schivo, come Henri de Montherlant, è un narciso che va questuando l’applauso per essere autorizzato ad amarsi. Quello dello scrittore inedito o ignoto è un dramma di identità: “Sono o non sono chi credo di essere?”
Se infatti viene meno l’esigenza della certificazione dell’io, essere uno scrittore professionale può mutarsi in tormento e in schiavitù. Come fu per Lamartine, nell’ultimo periodo della sua vita. E così gli andò ancora meglio che ad Honoré de Balzac. Questi credeva di avere il genio degli affari e così intraprendeva mirabolanti operazioni commerciali che si concludevano regolarmente con il nostro Honoré carico di una montagna di debiti che poteva ripagare soltanto scrivendo una montagna di libri. E rinunziando anche al sonno della notte. Balzac aveva l’io sbagliato. Aveva quello di un ticco commerciante e la realtà, insignificante, di scrittore di successo.
Un altro esempio è il grande Dostoëvskij, costretto dai suoi vizi e dai suoi eccessi a pubblicare “I fratelli Karamzov” a puntate, su un giornale, con l’urgenza di consegnare la puntata seguente. Proprio per avere un po’ di denaro. Il risultato è stato che a volte la trama del romanzo è acciabattata e inverosimile, e soltanto il suo immenso genio riesce a salvare il libro. Fiodor, alla fama letteraria, avrebbe di gran lunga preferito un fegato in ordine e la fortuna nel gioco d’azzardo. Forse non capì mai che la Fortuna al gioco d’azzardo non esiste. O al massimo ce l’hanno i proprietari di casinò.
Ma le malattie professionali dello scrittore artista non finiscono qui. Se la più comune è quella di non essere apprezzato da nessuno (la maggior parte delle volte a ragione) c’è anche la malattia nascente dal primo libro di grande successo, seguito da una serie di libri mediocri. L’autore finisce con l’odiare quel suo primo libro che lo identifica inesorabilmente con uno scrittore che non è più lui. E alla fine si sente soltanto l’oscuro fratello di sé stesso.
Infine c’è lo scrittore ipercritico e forse presuntuoso. Arthur Rimbaud ha una concezione tanto insolita, astratta e perfino metafisica dell’arte, da sentirsene lui stesso indegno. Da essere sicuro di essere condannato all’incomprensione. Cosicché abbandona giovanissimo la letteratura e vive una vita da disadattato in posti inverosimili come l’Etiopia. Forse il famoso “mistero Rimbaud” è soltanto la conseguenza di un “io” irrisolto.
Più grande ancora è il mistero Socrate. L’intera umanità venera quest’uomo come una delle massime figure di intellettuale, e tuttavia egli non ci ha lasciato un rigo. Se non ci fosse stato Platone (uno che si credeva uno scrittore artista) di lui ci rimarrebbe soltanto lo sbiadito ritratto che ce ne fa Senofonte. Ed è inutile chiedere perché non abbia scritto nulla. Assolutamente non lo sappiamo. E dal momento che non abbiamo una spiegazione storica, mi permetto di azzardarne una.
Malgrado la sua ironia e il suo buon carattere, Socrate disprezzava l’umanità. Più precisamente, disprezzava tutti tanto profondamente da non fare eccezione nemmeno per sé stesso. A tal punto si considerava un individuo senza importanza, da giocare persino con la sua vita. Lo si vede nei Dialoghi di Platone, lo si vide in guerra quando, secondo Senofonte, dimostrò come oplita un coraggio incrollabile. Lo dimostrò infine durante il processo, quando si concesse il lusso di irridere e di irritare coloro che potevano condannarlo a morte. Come fecero. E questo non gli fece cambiare atteggiamento. Quando i suoi discepoli gli dissero che avevano organizzato la sua fuga, rifiutò sorridendo e bevve la cicuta. Aveva settant’anni, disse fra l’altro: a che scopo sfuggire un destino comunque segnato? Se non valeva la pena di vivere, figurarsi se valeva la pena di scrivere.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
21/11/2020

IL PAVONE E LE SUE PENNEultima modifica: 2020-11-30T12:01:00+01:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “IL PAVONE E LE SUE PENNE

  1. Ah, ma nella narrativa al meccanismo partecipano attivamente le “scuole di scrittura”, che secondo il metodo proppiano ti insegnano a giostrare con le funzioni, i caratteri, gli intrecci; come nelle scatole del Meccano. Una volta approntato il testo e verificatane la rispondenza allo “schema” e la lustratezza degli “abbellimenti”, ti avviano alla “stampa autonoma” presso “siti convenzionati”. Se poco poco il libro “tira” – e i gusti del pubblico ormai sono ottusi e facilmente determinabili – e annusando l’aria si capisce che potrebbe avere successo, allora lo si raccomanda a un editore “vero” e può cominciare la “promozione”. D’altra parte, non è lontano il momento in cui la narrativa sarà prodotta dall’IA, che per ora si limita ad articoli sui “fatti” o approda alla “poesia”, in cui le eventuali “assurdità” e incongruenze sono benvenute: Ungaretti ma anche Montale ne furono maestri, con torme di esegeti che si affannano a dargli un significato. Succederà anche questo.

  2. Se non sbaglio, la spiegazione del perché Socrate non scriveva nulla dovrebbe esserci: secondo il suo modo di vedere la ricerca del sapere doveva essere incessante e pertanto non poteva essere cristallizzata nella parola scritta.
    Non so però se questa spiegazione venisse da lui o dagli studiosi.

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