LA RESILIENZA ITALIANA

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è il documento che ci ha richiesto l’Europa. se non ho capito male, per concederci i soldi del Recovery Plan. Per prima cosa, essendo io un semianalfabeta, e presumendo – dato lo strato sociale dal quale provengo – che anche fra i miei amici ci siano semianalfabeti – vado a cercare su un dizionario che significa “resilienza”. L’oroscopo dice: “Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”. Dunque il piano serve in primo luogo (“Ripresa”) a rilanciare l’economia e poi ad irrobustire gli oggetti materiali. Per esempio le sedie, le forchette, i materassi a molle e, per ragionare in grande, le arcate dei ponti. Lodevole intento, non c’è che dire. Una volta, tanti anni fa, una molla del materasso si ruppe e quasi mi trafisse a tradimento, mentre ero a letto. Non sarò certo io a schierarmi contro la resilienza.
Ma andiamo sul concreto. Ed anche qui mi devo fermare. Se ho dovuto spiegare il concetto di “resilienza”, figurarsi se in Italia non sia necessario chiarire il concetto di “concreto”.
Concreto significa qualcosa di reale, di effettivamente realizzato, e cioè che non si limita alle parole e alle dichiarazioni di principio. Come dire che di concreto, in Italia, abbiamo più o meno soltanto le rocce degli Appennini. Dunque, per proseguire bisogna innanzitutto fare un atto di fede: “Io credo che in Italia qualcuno possa realmente fare qualcosa per il Paese, e non soltanto parlarne”. Chi è disposto a questa dichiarazione, si accomodi. Io rimango fuori e continuo il commento come lo farei a proposito della favola di Cappuccetto Rosso.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza comprende sei “missioni”. Le missioni (oggi sono in vena di esegesi linguistiche) sono i “compiti pressoché sacri, dati a qualcuno da un Ente superiore, che potrebbe essere perfino Dio”. Qui siamo un gradino più in basso, in quanto si tratta dell’Unione Europea, ma il tono solenne è di rigore. L’Ue ci incarica infatti di realizzare sei grandi imprese (la metà delle fatiche d’Ercole, ma non certo una passeggiata) per concludere con una parola secca: “Salute”. E, come si dice, quando c’è la salute c’è tutto.
Il programma, che appare vago, ottativo e superficiale, include nelle missioni “17 componenti”, qualunque cosa siano, per arrivare (scrive Carlo Cottarelli, “Stampa”, 9 dic.2020) a 54 progetti. Cinquantaquattro, quando in Italia di un singolo progetto si parla per decenni (basti pensare al Ponte sullo Stretto di Messina) per poi neppure realizzarlo. Ma andiamo avanti.
Tanto poco l’Italia ha preso sul serio il progetto europeo di guidare le nostre riforme, che ci ha aggiunto di suo la riforma della giustizia. “Erano 54. ora sono 55, che faccio, lascio?” Del resto, zero più zero fa sempre zero, e il governo non poteva fare diversamente: la tradizione vuole che la riforma della giustizia sia sempre annunciata e mai attuata. Bisogna pur rispettare le tradizioni, che diamine.
Cottarelli ci informa che, la maggior parte delle volte (sempre a proposito di concretezza) per ogni componente quel grandioso programma annuncia gli obiettivi, non il modo di raggiungerli. Come quel padre che disse a suo figlio: “Io muoio povero, ma ti incarico di arricchirti”. Il modo di raggiungere gli obiettivi? Dunque avete dimenticato che Napoleone diceva: “L’intendance suivra”. E volete che Giuseppe Conte sia da meno?
Pensate: un altro Presidente del Consiglio si sarebbe limitato a coordinare l’azione dei Ministeri e a cercare di ottenere l’approvazione del Parlamento. Lui invece ha già progettato un “modello di governance di secondo grado”. Che belle parole, signora mia. Conte in testa, su un cavallo bianco, poi, dietro di lui, due superministri, seguiti da sei grandi manager, e infine 300 consulenti (ora pare ridotti a 90) per dire ai Ministeri quello che devono fare. Un meccanismo agile, veloce ed efficiente. Anche se, per quell’imbecille di Matteo Renzi, il progetto corrisponde a dire: “Del denaro farò quello che voglio senza dar conto a nessuno”. Ma Renzi è proprio malpensante. La storia lo giudicherà.
Purtroppo, la tendenza alla pagliacciata, che mi pareva una caratteristica italica, deve essere divenuta contagiosa. Infatti i punti programmatici sono “europei”, ed è questo che è desolante: “1 Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, 2 “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, 3 “Infrastrutture per una mobilità sostenibile”, 4 “Istruzione e ricerca”, 5 “Parità di genere, coesione sociale e territoriale”, 6 “Salute”. Un piccolo particolare: se per la salute a Bruxelles reputano che basti il Mes sanitario, non dovevano menzionarla. Se invece non hanno tenuto conto del Mes, la salute andava al primo posto. Soprattutto in tempo di pandemia.
L’Italia è un Paese il cui prodotto interno lordo è aumentato in tutto dell’8%, negli ultimi venticinque anni, mentre gli altri Paesi hanno avuto il 30 o il 40% di aumento. È proprio la digitalizzazione la cosa da mettere al primo posto? Non una diminuzione del peso dello Stato, e conseguentemente del fisco, per permettere agli italiani di respirare?
“Rivoluzione verde e transizione ecologica”. Tutte cose che, se fossero economicamente convenienti, si realizzerebbero da sé. E se non lo sono, noi non possiamo permettercele. A Bruxelles vivono sulla Luna.
Che cos’è la mobilità sostenibile, andare a dorso d’asino? Perché se si tratta dell’auto elettrica, vale ciò che si è detto per l’ecologia. Senza dire che l’auto elettrica sposta la produzione di anidride carbonica dalla strada alla centrale elettrica che, avendo stramaledetto il nucleare, va avanti a gas o a carbone.
La parità di genere, cioè tra uomo e donna, è un intento lodevole e razionale. Ma essa non dipende dalle leggi: dipende dalla società. Provate a realizzare la parità di genere nei Paesi islamici, o provate a convincere le femministe americane che devono obbedire ai loro mariti. Dunque ciò che si può fare non è molto, e sarebbe più urgente la riforma della giustizia. Da noi una causa di cinquecento euro, dinanzi al Giudice di Pace, dura anni. Parlo per esperienza.
Rimangono l’istruzione e la ricerca. Una cosa so: che il liceo immaginato da quel fascista di Giovanni Gentile mi ha dato una formazione invidiabile, e che il liceo uscito dal “Sessantotto” ha creato legioni di analfabeti. Tanto che oggi chi ha settanta od ottanta anni, sembra un’arca di scienza, di fronte alla media. Nei quiz televisivi, la parola “participio” provoca il panico. “Qual è il participio passato di ‘indurre’?” “Per favore, mi faccia un’altra domanda?” E sto parlando di llivelli universitari, seppure con i titoli più strampalati. Oggi non mi stupirei se, chiedendo a qualcuno in che cosa è laureato, mi rispondesse: “La metafisica del marketing come la concepiscono le patate bollite”.
Ma devo smetterla di essere così pessimista. Con guide illuminate come quella di Conte in Italia, e della von der Leyen a Bruxelles, non possiamo attenderci che trionfi.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
09/12/2020

LA RESILIENZA ITALIANAultima modifica: 2020-12-10T09:51:27+01:00da gianni.pardo
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