PREVISIONI SU BIDEN

Angelo Panebianco, in un godibile articolo, ci informa che “Il neo-presidente Joe Biden ha annunciato di volere organizzare un summit mondiale delle democrazie in una data ancora imprecisata del 2021”. E passa poi ad accennare alle mille difficoltà che il progetto incontrerà. O potrebbe incontrare. Infatti non è nemmeno detto che si realizzi. E a questo riguardo è intanto bene leggere il suo articolo(1).
Stranamente, tuttavia, una prima difficoltà che Panebianco non segnala è quella dell’identificazione delle democrazie. D’accordo, il sì per la Gran Bretagna è tanto scontato quanto il no per la Cina; ma l’Iran, che da sempre vota o fa finta di votare? Nella Russia Sovietica si votava, anche se il voto non era segreto, e si votata una sola lista, quella del partito comunista. Fino ad ottenere consensi del 99% virgola qualcosa. Biden l’avrebbe accettata, come democrazia? E oggi come risponderebbe all’Egitto, all’Algeria, agli staterelli dell’Africa Nera e alla lunga lista dei Paesi “a democrazia limitata”, se non puramente formale? Inevitabilmente si troverebbe tra l’incudine e il martello: se li invita crea scandalo, se non li invita se li inimica inutilmente.
L’annuncio di Biden è triste perché sembra che il nuovo Presidente non si renda conto che gli americani normali – se non gli intellettuali, che non imparano mai niente – hanno cominciato a capire che tutti incoraggiano l’America ad essere inclusiva, idealista, interventista, perché sperano che essa paghi le spese in termini di dollari e di sangue. Come tante volte in passato. Fino a far spostare il pendolo verso l’isolazionismo persino sotto la presidenza dell’inconcludente – ma progressista – Obama.
Il mondo – e lo stesso Biden – si illudono se pensano che si possa rimettere indietro l’orologio. Gli Stati Uniti non sono più la superpotenza ebbra di vittoria della fine della Seconda Guerra Mondiale. Sono un Paese superindebitato, stanco, pieno di problemi, e più pronto a leccarsi le ferite che ad imbarcarsi in crociate idealistiche e costose, lontano dai suoi confini.
Inoltre Biden è un politico di seconda categoria, scelto proprio perché tale, da un’America allarmata da un lato dall’intraprendenza di Donald Trump, e dall’altro dal “socialismo idealistico e demente” del campo democratico. Dunque, quando si dice “di seconda categoria”, non si intende affatto insultarlo. Si intende dire che è un professionista della politica, pieno di esperienza, di prudenza, e sostanzialmente pragmatico. Soprattutto se la Georgia darà a Trump la maggioranza in Senato, in gennaio, dobbiamo attendeci una Presidenza tranquilla, prudente, equilibrata e, direi quasi, noiosa. E comunque difficilmente pericolosa. Certo non “generosa” come la vorrebbero gli europei, da sempre convinti che gli americani siano degli imbecilli di cui è normale approfittare. In questo senso capisco Trump e la sua brutalità. Egli è stato – e forse sarà – il rappresentante dell’americano medio, stanco di pagare per il mondo, sentendosi per giunta mal giudicato e preso per i fondelli. America First è stato lo slogan di Trump, e potrebbe non essere quello di Joe Biden. Ma quest’ultimo farà bene a ricordare che è ancora oggi lo slogan di moltissimi americani. Probabilmente la maggioranza.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
16 dicembre 2020

(1)Corriere della Sera, Angelo Panebianco, “L’America sembra più vicina”, 16/12/2020.
È qualcosa di meno di un progetto ma, tenuto conto dell’autorevolezza della fonte, è molto più di un semplice auspicio. Il neo-presidente Joe Biden ha annunciato di volere organizzare un summit mondiale delle democrazie in una data ancora imprecisata del 2021. Con lo scopo di dare vita a un coordinamento il più stretto possibile (lo si chiami lega delle democrazie o forum democratico)fra le democrazie del Pianeta. Ovviamente, l’annuncio è, prima di tutto, una mossa anti- Trump, un modo per dire al resto del mondo: la musicaècambiata. Trump, nel trattare con gli altri Stati, era indifferente al loro regime politico: democratici o autoritari , non faceva differenza. Contavano solo i vantaggi che potevano ricavarne gli Stati Uniti. Biden dice: si torna all’antico, Washington ricomincerà a distinguere i Paesi a seconda del loro regime politicoea privilegiareirapporti di cooperazione con le democrazie. La manifestata volontà di favorire una grande alleanza fra le democrazie è imparentata con quella, tante volte ripetuta, di volere rinsaldare — dopo la burrasca Trump —irapporti di amicizia con i partners tradizionali, gli europei per primi. Propaganda a parte, potranno esserci delle ricadute pratiche? È possibile dare vita a una lega delle democrazie? Magari in grado di consentire un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede Onu, e di creare, più in generale, un fronte unito rispetto alle potenze autoritari
Certamente contano le tradizioni culturali. Nel caso di Biden gioca un ruolo l’eredità dell’internazionalismo wilsoniano. A world safe for democracy, un mondo sicuro per la democrazia: con queste parole il presidente Woodrow Wilson annunciò nel 1917 l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. L’idea che l’America debba operare per favorire la democrazia nel mondo (una generosa aspirazione perisimpatizzanti, l’ipocrita maschera dell’imperialismo yankee per gli antipatizzanti) fu da allora parte integrante della tradizione democratica americana. Col tempo contagiò anche i repubblicani. Si pensi al reaganismo. Ma si pensi anche a George Bush Jr e alla sua «esportazione della democrazia» al tempo delle guerre di Afghanistan e di Iraq. Oltre alle tradizioni, contano le circostanze in cui i governi si trovano di volta in volta ad operare. È possibile che, se vi investirà tempo e pazienza diplomatica, Biden possa riuscire a convocare un summit delle democrazie. Invece, è poco probabile che possa nascere un organismo politico vitale (la lega delle democrazie). Quali che siano le affinità fra loro, le democrazie hanno, in molti ambiti, interessi non coincidenti quando non apertamente divergenti. Ci sono troppe divisioni, attuali o potenziali. Per limitarci agli europei, basti pensare a quanto siano faticosi i compromessi in sede di Unione europea. Ci sono poiidossier aperti con gli Stati Uniti tanto sul piano commerciale quanto su quello strategico. A voler essere ottimisti si può anche ipotizzare che — superata la fase del nazionalismo aggressivo di Trump — trattative comunque molto difficili e impegnative possano appianare i contrasti commerciali. Sul piano strategico le cose sono molto più complicate. Ad esempio, le democrazie asiatiche, dal Giappone all’India, spaventate dalle ambizioni espansioniste di Pechino, sono plausibilmente più disponibili ad appoggiare una politica americana di «contenimento» della potenza cinese rispetto alle democrazie europee. Queste ultime intrattengono con la Cina ottime relazioni commerciali. Per giunta, non pare proprio, al momento, che le opinioni pubbliche europee si sentano in qualche modo «minacciate» dalle scelte cinesi di politica estera. Anche nell’epoca delle comunicazioni globali e istantanee contano ancora le distanze e le vicinanze geografiche: la potenza autoritaria geograficamente più vicina fa più paura di quella più lontana. È una delle ragioni per le quali gli argomenti più «sensibili» per le democrazie europee riguardano la Nato,i rapporti con la Russia, il Medio Oriente. Trump chiedeva agli europei un maggiore sforzo finanziario per la difesa comune. Certamente Biden dovrà reiterare la richiesta. Non sarà facile far comprendere alle opinioni pubbliche europee che, come i pasti, anche la sicurezza militare non è gratis e che se si vuole salvare la Nato (in attesa — campa cavallo — della famosa «difesa europea») saranno necessari sacrifici. Per inciso, la questione della Nato conta anche in un altro senso: ne fa parte, formalmente, uno Stato, la Turchia, impegnata in una politica espansionista che la pone in rotta di collisione con l’Europa. Per quanto tempo ancora, in sede Nato, si potrà fingere di non vedere il problema? E poi, naturalmente, c’è la Russia. Potenza economicamente in declino ma ciò nonostante (o forse proprio per questo) impegnata in aggressive politiche neo-imperialiste nell’Est Europa e in Medio Oriente. E impegnata ad aumentare con qualunque mezzo (aggressioni informatiche comprese) la propria capacità di influenza sull’Europa. Un «vizio» — l’imperialismo russo — che risale ai tempi degli zar: Vladimir Putin che, a differenza di tanti europei, conosce la storia, non casualmente, qualche tempo fa, ha detto di ispirarsi allo zar Pietro il Grande. Per un’America impegnata nel contenimento dei cinesi sarebbe difficile fare la stessa cosa nei confronti dei russi. Per giunta, è tutt’altro che sicuro che le democrazie europee la seguirebbero compattamente. Nell’ipotizzato summit noi italiani dovremmo anche chiedere agli americani una presenza più attiva nel Medio e Vicino Oriente per contenere russi e turchi che ormai bivaccano (Libia) davanti alla porta di casa nostra. Quante probabilità avremmo di essere ascoltati? Non nascerà una lega delle democrazie. Ma si possono rinsaldareivecchi legami . Come ha osservato Ian Bremmer (Corriere 12 dicembre) l’ordine mondiale liberale costruito dalle democrazie è da tempo in fase di ripiegamentoeci vorranno molti sforzi per ridargli slancio. Difficile ma non impossibile. Nonostante le sue tante magagne, il suddetto ordine mantiene ancora una capacità di diffondere nel mondo speranze e volontà di imitazione. Una capacità che nessun regime autoritario possiede. Come nella Berlino dei tempi della guerra fredda: si passava il muro per andareaOvest, mai nella direzione contraria.

PREVISIONI SU BIDENultima modifica: 2020-12-16T11:55:59+01:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “PREVISIONI SU BIDEN

  1. Che perdita di tempo la lettura dell’ articolo dell’ illùstre Prof. Panebianco anche lui recitante la giaculatoria (pardon: il mantra) “Biden buono, Trump cattivo” ! Ma valeva la pena del Suo commento (perfettamente azzeccato) ?

  2. Sicchè a sentire Lei professor Pardo, gli americani sarebbero dei bonaccioni che sono intervenuti in Europa per il nostro bene, non perchè ne avessero l’interesse. E se ci stanno abbandonando, non è perchè sia venuto meno questo interesse ma perchè siamo noi europei che ce ne approfittiamo.
    Certe volte io non capisco se voi filoamericani siate stupidi o siate in malafede.

  3. Gentile Signora,
    gli americani non sono dei bonaccioni o degli imbecilli, ma sono una grande democrazia e, come tutte le democrazie, sono capaci dei più grandi errori. Uno di questi è l’idealismo. O gli americani ci hanno aiutati nel loro interesse e – dal punto di vista americano – hanno fatto bene, o l’hanno fatto nel nostro interesse, e sono stati stupidi. Comunque, in nessun caso qualcuno può rimproverargli di fare il loro interesse. Se reputano che sia loro interesse lasciarci al nostro destino, non possiamo certo rimproverarglielo. Ognuno per sé e Dio per tutti. Siamo noi che dobbiamo provvedere alla nostra difesa.
    Il Suo errore, a mio parere, è ragionare in termini etici.

  4. “ ….tutti incoraggiano l’America ad essere inclusiva, idealista, interventista, perché sperano che essa paghi le spese in termini di dollari e di sangue. Come tante volte in passato. “
    Se togliamo la prima guerra mondiale, quali sono stati gli interventi militari Usa compiuti nell’interesse di noi europei pagati dal contribuente americano ?

    Harry Truman (1945-1953, Democratico) Guerra di Corea.

    Dwight D. Eisenhower (1953-1961, Repubblicano) ereditò la Guerra di Corea e giunse all’armistizio.

    John Fitzgerlad Kennedy (1961-1963, Democratico) portò in pochi mesi i consiglieri militari statunitensi in Vietnam da qualche centinaio a 16.000 e, di fatto, fu l’iniziatore del conflitto che avrebbe segnato l’America per generazioni.

    Lyndon Johnson (1963-1969, Democratico) prese il posto di Kennedy e verrà ricordato per l’escalation della Guerra del Vietnam. Nel 1965, Johnson ordinò anche l’invasione della Repubblica Domenicana per rovesciare il governo socialista di Juan Bosch Gavino.

    Richard Nixon (1969-1974, Repubblicano) chiuse la guerra in Vietnam dopo un’escalation di bombardamenti a tappeto sulle città e le campagne del Nord e, segretamente, in Cambogia e Laos.

    Ronald Reagan (1981-1989, Repubblicano), dopo aver chiuso la Guerra Fredda, fu protagonista di due azioni militari: l’invasione di Grenada nel 1983, decisa perché un regime filo marxista non si affiancasse a quello cubano e il bombardamento di Tripoli nel 1986 con l’obiettivo di colpire Gheddafi.

    George H. W. Bush (1989-1993, Repubblicano) combatté e vinse la prima guerra del Golfo, dopo l’invasione da parte di Saddam Hussein del Kuwait. Diede anche l’ordine di invadere Panama per abbattere il dittatore Manuel Noriega.

    Bill Clinton (1993-2001, Democratico) inviò e poi ritirò le truppe americane dalla Somalia. Due anni dopo, ordinò i raid aerei contro i serbi di Bosnia per costringerli a trattare e, dopo gli accordi di Dayton, dispiegò una forza di pace nei Balcani.

    George W. Bush (2001-2009, Repubblicano) Nell’ottobre del 2001 decise l’invasione dell’Afghanistan dopo il rifiuto del regime talebano di estradare i responsabili dell’attentato alle Torri gemelle. Nel 2003 decide d’invadere l’Iraq di Saddam Hussein perché considerato uno stato terrorista che disponeva di “armi di distruzione di massa” ( ad esclusione di pistole, fucili e armi da taglio, quali non lo sono ? ) . Su richiesta degli Usa, sia in Afghanistan che in Iraq , sono intervenuti contingenti militari europei a spese dei rispettivi contribuenti.

    Barack Obama “ Yes, we can” (2009-2017, Democratico) ha ereditato da Bush figlio (che dal padre ha preso solo il cognome ) due guerre e il disastro finanziario del 2008. Eletto per far tornare le truppe a casa da Bagdad e Kabul è intervenuto in Siria ( perché da cosa nasce cosa ) e su sollecitazione di Francia e Gran Betagna in Libia. Berlusconi, che aveva intuito che l’intervento ci avrebbe portato solo guai, prima tentò una mediazione con Gheddafi, poi dovette accodarsi per dovere di alleato.

    Se si esclude l’intervento in Libia nell’interesse ( si fa per dire) degli europei, sono costati più gli interventi militari europei a fianco degli Usa ( Afghanistan e Iraq ) che gli interventi Usa nell’interesse degli europei.
    Discorso a parte le spese militari per la difesa degli europei. Gli Usa non sono obbligati a mantenere basi militari in Europa . Se gli americani ritengono non essere più nel loro interesse mantenerle, cioè che non siano necessarie anche alla difesa degli Usa, che le chiudano e gli europei che si arrangino.

  5. Caro Carloeduardo,
    Lei mette molta carne al fuoco e questo rende difficile risponderle. Le farò comunque notare che la mia frase, che Lei cita, parla di ciò che vorrebbero i terzi, non di ciò che pretendono di aver fatto gli americani. Anche se alcuni di loro lo pensano. È vero che concludo: “Come tante volte in passato”, ma non necessariamente a favore dell’Europa. La guerra di Corea e la guerra del Vietnam (con esiti opposti) avevano come intenzione il contenimento del comunismo nel mondo.
    All’Europa gli Stati Uniti hanno offerto la sicurezza della difesa col loro esercito er con la loro minaccia nucleare nei confronti dell’Unione Sovietica. Per molti decenni. Abbiamo dunque dimenticato la Guerra Fredda? Creandoci per giunta l’idea, e l’abitudine, che alla nostra difesa debbano pensare altri.
    Comunque tutto il discorso è insulso, perché etico, da una parte come dall’altra. Per me ogni Paese fa, e deve fare, soltanto il proprio interesse. E se non lo fa sbaglia.
    G.P.

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