LE MOSCHE COCCHIERE DEL GIORNALISMO

Ci sono degli articoli tanto fastidiosi che, se soltanto dal titolo riesco ad indovinarne il contenuto, non li leggo. Intendiamoci, non che gli autori siano sempre stupidi o ignoranti, infatti nel mazzo metto di slancio Eugenio Scalfari, che certo non è né stupido né ignorante. È che leggerli sarebbe una perdita di tempo e l’occasione per un’arrabbiatura.
Per esempio, ecco un articolo sulla Stampa del 10 maggio 2021, a firma Paola Severino, dal titolo: “Non lasciamo sole le donne di Kabul”. Ora, che la sorte delle donne, nel mondo musulmano, e in particolare in Afghanistan, sia particolarmente infelice, non c’è dubbio. È pure certo che, dopo la partenza degli occidentali da quelle parti avverranno cose incredibili e insopportabili. Ma a che serve la perorazione, in favore delle donne di Kabul? Che cosa crede di ottenere, la Severino? Se anche leggessi il suo articolo, e se anche alla fine piangessi, in che misura avrei migliorato la sorte di quelle donne? Attivarci? Combattere per loro? Già fatto, per vent’anni, senza risultato. Nessuno può aiutare l’Afghanistan, né i comunisti (ci hanno provato) né gli Occidentali (ci hanno provato). A che serve l’allarme della Severino? Forse – ma questa è una malignità – a far sentire nobile e morale l’autrice, e a far sentire nobili e morali i lettori?
Gli articoli insopportabili sono quelli che non parlano della realtà, cioè del presente o del passato: sono quelli che parlano del futuro. Perché il futuro è nella maggior parte dei casi inconoscibile e, quando si crede di poterlo dedurre, bisogna farlo con mille cautele, premettendo: “Se la situazione quale si presenta attualmente non cambia”; “Se non avviene qualche fatto imprevisto, tale da cambiare i dati”, e via dicendo. Tanto che alla fine tutto somiglia a un gioco.
I profeti hanno ragione soltanto quando sono “profeti del passato”, cioè quelli che possono affermare, con prove, “Io l’avevo detto”. Ma questi stessi sono inutili per il futuro perché, se ci hanno azzeccato una volta, magari per caso, non è detto che ci azzecchino una seconda volta. Quello del profeta è un mestiere vivamente sconsigliato.
E poi ci sono i peggiori. Quelli che dimenticano che il giornale serve a dare notizie e, quando va bene, a spiegare i fatti. E invece le mosche cocchiere del giornalismo lo scambiano per l’occasione di guidare il mondo o almeno il loro Paese. L’Italia dovrebbe far questo, gli Stati Uniti dovrebbero fare quest’altro. Sono anche quelli che raccontano un incidente mortale sul lavoro o un muliericidio e dichiarano solennemente che “cose del genere non devono più verificarsi”. Constatano che la Pubblica Amministrazione funziona malissimo, e descrivono come sarebbe bello se funzionasse bene, se si conformasse alle loro ricette. Quelli che piangono sulla fame nel mondo (i peggiori ne danno addirittura la colpa a quelli che mangiano a sazietà) e, avendolo fatto, credono di avere fatto tutto il necessario al riguardo. Loro sono innocenti e colpevole è il resto del mondo. Quelli che dicono che non bisognerebbe spendere soldi in armamenti, ma soltanto per nobili cause e poi, se il Paese è in pericolo, pretendono che un Paese bene armato (l‘America, di norma) combatta per loro, e muoiano i suoi soldati. Quelli che improvvisamente scoprono che se gli uomini collaborassero di più, fraternamente, il mondo sarebbe migliore. Meglio che mi fermi, anche se in corpo ho ancora tanto fiele.
Il giornale non è fatto per predicare sogni buonisti (la sede giusta è il pulpito di un parroco) e neppure per tenere lezioni di morale o di politica. Queste cose non sono giornalismo. Rimangono lecite, certo, ma non sono giornalismo, e vanno presentate per quello che sono: tesi personali che impegnano soltanto chi le firma. Perfino lo storico o il filosofo, se occasionalmente scrivono su un giornale, non devono parlare ex cathedra. Devono comportarsi da giornalisti. Tanto, chi vuole saperne di più, sulle loro opinioni, può andare a leggere i loro libri.
Scalfari, dei suoi rapporti col Papa – o con Dio, visto che ha anche quelli – ne parli con gli amici suoi, o col suo confessore, non in un editoriale. Un articolo pieno di “io” e di “Dio” è illeggibile. E perfino inammissibile.
Ovviamente non intendo “io” come prima persona del verbo, nel modo di scrivere un articolo, ma come argomento dell’articolo. Poi si può scrivere in prima persona, all’impersonale, o come si vuole, purché al centro di tutto rimanga il lettore e la sua curiosità, non gli interessi morali o culturali di chi scrive.
Diverso è il caso del politico che scrive di politica. Perché non è camuffato. Non vende obiettività, espone le proprie legittime convinzioni, invitando il prossimo a valutarle. E questa è divulgazione.
I giornali sarebbero preziosi se si impegnassero quotidianamente a mostrare che ogni medaglia ha due facce. Per cominciare, fornisco un esempio negativo. Se un giornalista sostiene che i popoli del [fu] Terzo Mondo sono male amministrati e soffrono la fame a causa del colonialismo, bisognerebbe mandarlo al diavolo e basta. Questa non è informazione. Non soltanto il fatto è falso, ma quand’anche fosse vero, riguarda un immodificabile passato, e l’articolo serve soltanto a fomentare rancori e (stupidi) sensi di colpa dell’Occidente. È come dire che un tizio a cinquant’anni ha ucciso perché da bambino suo padre lo rimproverava spesso.
Invece – esempio positivo – facciamo il caso di due economisti dei quali uno sostiene il massimo della globalizzazione (in modo da avere tutti i beni al prezzo più basso) e un altro sostiene che bisogna conservare la produzione dei beni strategici, in modo da non essere ricattabili, all’occasione. Se il miglior carro armato, per prezzo e prestazioni, è americano, per il globalista estremista è ovvio che si debba comprare quel carro armato e non un altro. Ma in caso di conflitto, se lo Stato produttore ci negasse i pezzi di ricambio? Non è meglio avere una nostra industria bellica? Ecco che cosa obietterebbe chi si occupa di geopolitica. Forse non avremo il miglior carro armato, e certo non il meno caro, ma certo avremo un carro armato funzionante, mentre diversamente potremmo restare senza.
Ecco il caso in cui i giornali possono fare una sana informazione. Un caso in cui la soluzione non è il bianco o il nero. Soprattutto perché, anche a dare ragione al secondo giornalista, poi si apre la discussione su quali siano i beni “strategici”. Per l’Inghilterra, stante il suo clima, un bene strategico potrebbero essere gli alimentari. Non si dimentichi quanti marinai sono morti, quante navi sono state affondate, poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, perché gli inglesi non morissero di fame. Dunque forse, in quel clima infame, bisognerebbe lanciare molte serre. Oggi esse sarebbero antieconomiche, ma domani preziose, se l’Inghilterra avesse difficoltà con le importazioni. Nessuno dice che sia sicuramente giusto questo o quello, ma discutere senza “verità rivelate”, questo è giornalismo.
Ce n’è di spazio per l’informazione utile. E invece viene sprecato per dire che se l’Unione Europea fosse più stretta o più larga staremmo meglio. Dimenticando che nessuno mai, da quei Paesi, verrà a chiedere alla Gazzetta di Crotone o di Belluno come deve essere l’Europa. E non lo chiederà nemmeno al Corriere della Sera o a Repubblica.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
9. maggio 2021

LE MOSCHE COCCHIERE DEL GIORNALISMOultima modifica: 2021-05-10T12:35:35+02:00da gianni.pardo
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