LEGGERE LA CRISI TURCO-ISRAELIANA

L’anno scorso una nave di attivisti turchi, partita dalla Turchia, cercò di forzare il blocco di Gaza. Gli israeliani reagirono, inviando un commando sulla nave, i “pacifisti” li attaccarono in modo così violento (esistono dei filmati) che i militari si difesero e morirono nove turchi.
Per indagare sull’incidente le Nazioni Uniti hanno istituito una commissione la quale da un lato ha giudicato eccessiva la reazione israeliana (ed ha per questo chiesto scuse e risarcimenti), dall’altro ha riconosciuto la legittimità del blocco di Gaza ed ha criticato la Turchia per avere permesso a quei fondamentalisti, armati di bastoni e coltelli, di tentare l’impresa.
Il governo israeliano ha volentieri incassato il riconoscimento giuridico delle sue buone ragioni ed ha annunciato che è disposto solo ad esprimere il proprio rammarico per l’accaduto, ma niente di più. Il governo turco invece, adirato per il rapporto – visto che stavolta la maggioranza automatica anti-israeliana all’Onu non ha funzionato come al solito – ha reagito con insolita furia. Ha espulso l’ambasciatore di Gerusalemme, ha bloccato la collaborazione militare con Israele e, ad ogni buon conto, ha dichiarato di non accettare le conclusioni della Commissione Palmer.
Una tempesta. Ma forse una tempesta finta, una “una tragicommedia dove le apparenze sono – per il momento – differenti dalla realtà”, come scrive Vittorio Dan Segre(1). Questa autentica autorità in materia si chiede ancora: “si è dunque giunti alla rottura definitiva fra i due vecchi alleati? Pare di sì ma probabilmente no”. Non solo “I rapporti strategici e militari erano interrotti da tempo” ma “gli scambi commerciali fra i due paesi sono aumentati del 40% e la Turchia compra da Israele gli aerei senza piloti con cui bombarda i curdi”.
Nell’ambito dei rapporti internazionali non si può fare affidamento su ciò che dicono gli statisti. Mentre i cittadini hanno tendenza a prendere sul serio le loro parole, il lavoro dei diplomatici e degli altri governi è quello di interpretarle per distinguere ciò che rappresenta autentica volontà e ciò che è mera propaganda. Correndo naturalmente il rischio di sbagliare. Un esempio storico è la garanzia che aveva dato la Gran Bretagna alla Cecoslovacchia che l’avrebbe difesa  dall’aggressività nazista. Ma poi non la difese. Forse Hitler pensò che anche nel caso della Polonia Londra si sarebbe limitata ad abbaiare ed invece quell’iniziativa dette inizio alla Seconda Guerra Mondiale.
La vera bussola nei rapporti internazionali non sono le parole, sono gli interessi. Essi sono più stabili delle vicende politiche perché dipendono dalla geografia e spesso in particolare dalla geografia economica. Un esempio d’attualità: la Libia ha molto petrolio ma fare una guerra per questo petrolio sarebbe assolutamente stupido. Da un lato, chiunque sia al potere a Tripoli il petrolio non lo regalerà e lo venderà al prezzo di mercato. Dall’altro, chiunque sia al potere a Tripoli avrà tanto interesse a venderlo quanto ne aveva il governo precedente.
Per la Turchia si può pensare che molta parte della sua recente politica dipenda dal suo diminuito peso nella Nato, in quanto è venuta meno la minaccia sovietica e l’interesse statunitense per Ankara. Questo ha allentato i vincoli con l’Occidente. Come se non bastasse, il rifiuto dell’Europa di accogliere la Turchia non solo ne ha ferito l’orgoglio, ma l’ha indotta a volgersi a sud. Invece di essere l’ospite scomodo dell’Europa, vorrebbe divenire il padrone di casa del Vicino Oriente. Fra l’altro, essendo di gran lunga la più grande potenza militare sunnita, ben può fare da contraltare all’Iran sciita in un momento in cui parecchi Paesi guardano con preoccupazione a Tehran. Per attuare questo cambiamento, e mettere la nazione in sintonia con la nuova politica, è necessario dekemalizzare la società nella direzione dell’Islàm. Bisogna proporsi come l’armatissimo campione della comunità sunnita nel Vicino Oriente, in opposizione al campione disarmato, l’Arabia Saudita.
Per far questo, la via più semplice e gratuita è farsi campione dei pregiudizi arabi contro Israele. Gli attacchi sono fatti di parole, non feriscono nessuno e possono dare notevoli frutti in termini di propaganda. Si spiegherebbe così l’avere permesso a quella nave di partire dalla Turchia e l’attuale atteggiamento rodomontesco. Poi, secondo Segre, business as usual. La collaborazione militare e commerciale con Israele è utile ad ambedue e bisognerà soltanto proseguirla senza farsi notare.
Ankara non si muoverà contro Israele, dal punto di vista militare, per molte ragioni. I due Paesi non hanno frontiere comuni. Per la propaganda la presenza di Israele è sempre utile come testa di turco (!). Infine e soprattutto – vale per la Turchia come per chiunque – un Paese minacciato effettivamente di sterminio e in possesso dell’arma atomica è il più temibile che si possa immaginare. Se dovesse perire trascinerebbe a fondo, con sé, molti, molti milioni di cittadini del Paese aggressore. Dai diciassette milioni di abitanti di Tehran a quelli, forse ancora più numerosi, di Istanbul.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, www.DailyBlog.it
3 settembre 2011
(1)http://www.ilgiornale.it/esteri/la_turchia_rompe_israele_parole/03-09-2011/articolo-id=543422-page=0-comments=1

LEGGERE LA CRISI TURCO-ISRAELIANAultima modifica: 2011-09-03T17:56:19+02:00da gianni.pardo
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