L’INVIDIA È PROFONDAMENTE LEGATA ALLA DEMOCRAZIA

L’INVIDIA È PROFONDAMENTE LEGATA ALLA DEMOCRAZIA

(Un’intervista comparsa sul Figaro il 12/08/2011. Il giornalista Jean Sévillia parla con Pascal Bruckner).

 

Effetto perverso dell’egualitarismo : gli uomini hanno tutti diritto alla ricchezza e alla felicità, ma questa aspirazione comune provoca la guerra fra loro. L’analisi (1) di un romanziere e saggista.

 

Come definisce l’invidia?

Pascal Bruckner: L’invidia è tanto il desiderio di ottenere ciò che appartiene agli altri quanto la voglia di spogliarli dei loro privilegi.

Questa caratteristica delle persone possiede dunque una dimensione sociale…

L’invidia è profondamente legata alla democrazia egualitaria. Questo sentimento era frenato, nella società dell’Ancien Régime, dallo stato sociale. Il commerciante poteva scimmiottare la nobiltà, come Monsieur Jourdain nel Borghese Gentiluomo, ma non poteva accedere a questa condizione, determinata dalla nascita. L’universo aristocratico manteneva una distanza insuperabile fra gli esseri umani. La Rivoluzione francese ha cambiato tutto, ravvicinando le condizioni, ed ha reso universale la concorrenza di tutti contro tutti. Se gli uomini, nelle nostre società, sono spesso agitati e inquieti è perché, in una democrazia, il successo di una minoranza e la depressione degli altri è intollerabile. Promettendo a tutti la ricchezza, la felicità, la pienezza, le nostre società legittimano anche la guerra felpata che gli uomini combattono gli uni contro gli altri, a volta a volta indispettiti o felici, secondo la loro sorte. Questo, insieme col veleno del paragone, al rancore che nasce dal successo spettacolare degli uni e dalla stagnazione degli altri, trascina ognuno in un circolo senza fine di appetiti e di delusioni. Non c’è peggiore ammaestramento di quello che s’infliggono gli individui in competizione quando aspirano collettivamente alle stesse cose. Tutti uguali, dunque tutti nemici. Ed è così che, secondo Stendhal, i tempi moderni registrano il trionfo dell’invidia, della gelosia e dell’odio impotente.

Che differenza c’è tra invidia e gelosia?

La gelosia riguarda la perdita di un essere che ci è caro e la cui tenerezza può esserci rapita. Gli anni Sessanta avevano creduto di potere eliminare questo sentimento mediante l’emancipazione dei costumi. Si è finito con l’accorgersi che esso si è dissimulato sotto altre strategie, ma rinasce continuamente malgrado gli sforzi impiegati per ucciderlo. La vita di coppia oscilla in permanenza fra questi due stati: vi si è gelosi della propria indipendenza e vi si è gelosi dell’altro o dell’altra. Ma questa brutta tendenza, con buona pace dei riformatori del cuore umano, non ha nessuna ragione di sparire. Al di là del desiderio di possesso, la gelosia segna la tragedia dell’alterità, il fatto che si va ad urtare sull’ineliminabile differenza dell’altro e sul fatto che ci sarà sempre fra noi un muro insuperabile. Se sono geloso soltanto delle persone che amo, tutto, al contrario, alimenta l’invidia: la beatitudine degli altri, la loro ricchezza, la loro posizione sociale e perfino la loro infelicità, la loro malattia, che li rendono più interessanti di noi.

Quali sono i sintomi dell’invidia?

Il più evidente riguarda i segni esteriori della ricchezza, in una società che valorizza più delle altre il successo economico. Quando le persone di ambienti differenti stanno insieme, lo stupore, ma anche la rabbia possono sgorgare dal loro confronto. “Essere povero a Parigi, diceva Emile Zola, è essere povero due volte”. La nostra miseria sarebbe più sopportabile se non vedessimo costantemente la felicità dei benestanti. Prendete una situazione tipica di questo periodo estivo: un porto turistico, Saint Tropez per esempio, dove la folla degli estivanti, in calzoncini e tongs, viene ad ammirare gli eletti e i prosperi che se la godono sui loro yacht. Urto brutale che può suscitare parecchie reazioni. Cioè: farò tutto per divenire un giorno uno di loro. Oppure: mi batterò perché nessuno abbia il diritto di ostentare la propria ricchezza in modo osceno dinanzi ai poveri. O ancora, posizione più saggia: sono felice della felicità dei milionari, ma non considero un successo l’ostentazione dei beni materiali. 

Ma gli stessi ricchi sono presi nell’ingranaggio perverso della brama insaziabile nei confronti di quelli che hanno più di loro: accanto agli opulenti ordinari, ci sono le Grandi Belve la cui magnificenza urta i sentimenti degli altri. La stessa società che suscita l’invidia crea tuttavia dei meccanismi capaci di frenarla. Il primo, è il telegiornale. Lucrezio, nel De Rerum Natura, parlava del saggio che seduto sul bordo dell’alta roccia, guarda gli imprudenti perdere la vita in mare durante la tempesta. Questa formula, che è un elogio della moderazione e del sacro egoismo, descrive abbastanza bene la posizione del telespettatore del telegiornale delle venti. Se i media hanno l’ambizione di allarmarci riguardo alle tragedie del mondo, rinforzano anche il nostro sentimento di pace.  Quando il Giappone è devastato dallo tsunami, minacciato da un incidente nucleare, il telespettatore segue queste informazioni con un segreto compiacimento: è spaventoso, ma io sono al riparo. La mia vita è forse mediocre, ma essa è preferibile a quella delle popolazioni sinistrate. È orribile da dire, ma noi abbiamo a volte bisogno della disgrazia altrui per sentirci bene, confortati dalle nostre scelte. La seconda macchina per frenare l’invidia, è la stampa femminile. Da un lato essa ci squaderna sotto gli occhi persone belle, ricche e abbronzate, che sembrano avere ogni forma di successo, e nello stesso tempo essa registra con un certo sadismo il lento decadimento delle star, il loro imbruttimento, le loro rughe, i loro rotolini di grasso, i loro tormenti amorosi, i loro insuccessi professionali. Essa esalta lo splendore delle persone quanto il lato effimero di questo splendore: gli dei viventi regnano sovrani per qualche anno ma un giorno possono cadere dal loro piedistallo. Dopo tutto, i potenti di questo mondo non sono poi così contenti ed io non ho da desiderare il loro destino.

La nostra società non crea forse delle invidie artificiali?

Assolutamente sempre, ed è questo che spiega il suo fascino e il suo pericolo. Era già la discussione sul lusso fra Voltaire e Rousseau. Per il primo, il lusso rendeva gli uomini cortesi, brillanti, apriva il loro cuore ad ogni sorta di raffinatezza. Per Rousseau, al contrario, rappresentava la creazione d’appetiti fittizi che strappavano l’individuo a se stesso, ne facevano la preda dell’amor proprio. Oggi, il consumismo e le grandi città non cessano di suggerirci modelli di godimento, di piacere, di stili di vita di cui siamo privi.  Nei luoghi pubblici, nelle grandi arterie, incrocio degli sconosciuti il cui aspetto può attirarmi ma anche disturbarmi. Lo spettacolo della felicità degli altri non è sempre una fonte di compiacimento: può ferirmi quando è troppo ostentato, dimostrativo. Gli scoppi di risa di una comitiva gioiosa, risuonando nelle mie orecchie, mi rinviano alla mia solitudine, alla mia piccolezza.

Jules Renard diceva che non basta essere felici: è ancora necessario sapere che gli altri non lo sono. La felicità è un bene il cui prezzo è di non appartenere che a me. L’invidioso scruta con sadica bramosia la caduta delle persone che sono nello stesso tempo i suoi modelli e i suoi rivali. Ne trae un triste giubilo, non lontano dal risentimento, aspettando di trovare nuove persone che insieme corteggerà e detesterà.

La Seconda Guerra Mondiale ha aperto nel modo più drammatico un nuovo capitolo nella storia dell’invidia, conseguenza dell’Olocausto: la vittimologia. Tutti i popoli e le minoranze sognano di installarsi nella posizione inarrivabile dell’oppresso: potersi dire oggetto di una persecuzione, di un genocidio, significa beneficiare di una rendita morale che vi rende intoccabili, è accedere alla grande luce della riconoscenza. Da questo la concorrenza delle vittime che oppone discendenti di schiavi, ex colonizzati, ebrei, donne, proletari. L’affaire Strauss-Kahn ne è l’illustrazione perfetta, quella che oppone il maschio bianco, ricco e “perverso” alla cameriera africana piena di meriti. La colpevolezza del primo si deduce dal suo sesso e dalla sua ricchezza. Checché abbia fatto o non fatto, ha torto. Anche se la giustizia lo dichiarasse innocente, sarebbe colpevole. Incredibile rovesciamento: da mezzo secolo, la sofferenza è divenuta desiderabile, tutte le minoranze e tutti i popoli sognano di far parte dell’aristocrazia dei paria.

Si conosce l’origine delle proprie invidie? Si è coscienti di essere invidiosi?

Che se ne sia coscienti o no non cambia gran che: non si è per questo meno avidi. Ciò che suscita questa malattia tanto umana è la prossimità di coloro di cui si invidia il fisico, il salario, la vita amorosa, l’eleganza. Vivere costantemente accanto a persone più agiate, più dinamiche, che sottolineano i vostri limiti, non può che rendere più cocente la ferita narcisistica. C’è un ambiente in cui l’invidia regna sovrana, ed è quello dell’arte e della letteratura. Con un paradosso: questo ambiente, tradizionalmente orientato a sinistra, è anche quello in cui le leggi del mercato si applicano nel modo più spietato. Quando si è pittori, musicisti, attori, registi o scrittori, il valore è dovuto soltanto all’opinione degli altri. Quali che siano i vostri talenti, sarete stimato in funzione delle vostre vendite, dei vostri successi. Che essi calino ed ecco sarete considerati degli has been, sarete collocato nella categoria infamante dei perdenti. V’è uno iato fra la generosità politica ostentata dai grandi nomi del mondo dell’arte e dell’intelligentsia e la crudeltà senza limiti che caratterizza l’antagonismo fra artisti. In rialzo, in ribasso, come alla Borsa, la nostra quotazione sale e scende in un yoyo infernale che non controlliamo. Questa violenza agisce con totale evidenza nei circoli degli artisti sconosciuti, delle avanguardie dove non esiste previdenza sociale, reti di protezione, dove non c’è che l’approvazione o l’indifferenza del pubblico, il tribunale più versatile che ci sia. Come l’imperatore romano nei combattimenti dei gladiatori, è lui che alza o rovescia il pollice.

Qual è il contrario dell’invidia: il dominio di sé, l’ascesi?

L’impoverimento volontario per tutti è stato la risposta di un certo socialismo all’invidia suscitata dal capitalismo. L’applicazione di questo principio nell’ex Unione Sovietica ha provocato un gigantesco fallimento: invece di arricchire l’insieme della società, non ha condotto che a rendere anemico l’insieme del popolo. Questo discorso risorge oggi attraverso un certo ecologismo, negli slogan della “sobrietà felice”, dell’ “abbondanza frugale”, solo modo, ci dicono, per salvare il pianeta. La vera ricchezza non sarebbe nei beni, ma nei legami; spossessarsi materialmente corrisponderebbe ad arricchirsi spiritualmente. Non vedo per quale miracolo avremmo una vita culturale più ricca se le case fossero illuminate con le candele. Detto questo, uno dei torti di un certo liberalismo all’anglosassone è stato di disconoscere la forza dell’invidia. Le teorie liberali postulavano che l’egoismo dei singoli, quando era sottoposto al libero mercato, permetteva di concorrere alla felicità di tutti. Si dimenticava che, in una società come la nostra, i vinti non sono soddisfatti della loro sorte. Non tutti hanno risorse sufficienti per ripartire  su un’altra base se sono falliti. Gli americani e i francesi hanno due atteggiamenti diversi, nei confronti della sconfitta. In Francia è infamante e vi segna per tutta la vita; negli Stati Uniti, una giovane nazione in cui impera il culto dell’impresa, fa parte del corso normale della vita, è una tappa sul cammino del trionfo. Dipende anche dal fatto che abbiamo due usi diversi della ricchezza. Da noi, gli opulenti si nascondono, strategia della discrezione per non ferire  i meno abbienti; negli Stati Uniti si mostrano, strategia dell’ostentazione per suscitare l’ammirazione e incoraggiare gli altri a seguire il loro esempio.

Si può guarire dell’invidia?

Si esce dall’inferno dell’invidia attraverso l’ammirazione. L’altro non è soltanto un rivale il cui splendore vi ferisce, è anche un suggeritore nel senso che la parola ha in teatro. Ci suggerisce, ci sussurra mille modi di vivere in modo diverso, di tracciare nuove vie. Le folate velenose della gelosia possono allora ribaltarsi in emulazione, in curiosità, e divenire un veicolo di desideri invece che un ostacolo insuperabile. La società migliore è quella che sa mettere i vizi più inconfessabili al servizio del bene comune.

Trad. di Gianni Pardo, www.DailyBlog.it

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(1) Le Figaro – Pascal Bruckner : ” L’envie est profondément liée à la démocratie”

JEAN SÉVILLIA Publié le 12/08/2011 

Effet pervers de l’égalitarisme : les hommes ont tous droit à la richesse et au bonheur, mais cette commune aspiration provoque la guerre entre eux. L’analyse d’un romancier et essayiste.

 

Comment définissez-vous l’envie?

Pascal Bruckner – L’envie, c’est autant le désir d’obtenir ce qui appar tient aux autres que de les dépouiller de leurs privilèges.

Ce trait de caractère possède donc une dimension sociale…

L’envie est profondément liée à la démocratie égalitaire. Ce sentiment était freiné, dans la société d’Ancien Régime, par le statut social. Le marchand pouvait singer la noblesse, comme Monsieur Jourdain dans Le Bourgeois gentilhomme, mais il ne pouvait accéder à cette condition déterminée par la naissance. L’univers aristocratique maintenait une distance infranchissable entre les êtres. La Révolution française va tout changer et, en rapprochant les conditions, rendre universelle la concurrence de tous contre tous. Si les êtres, dans nos sociétés, sont volontiers agités et inquiets, c’est que, dans une démocratie, la réussite d’une minorité et le marasme des autres est intolérable. En promettant à tous la richesse, le bonheur, la plénitude, nos sociétés légitiment aussi la guerre feutrée que se livrent les hommes, tour à tour dépités ou heureux, selon leur fortune. Cela, joint au poison de la comparaison, à la rancune qui naît de la réussite spectaculaire des uns et de la stagnation des autres, entraîne chacun dans un cycle sans fin d’appétits et de déceptions. Il n’est pas de pire dressage que celui que s’infli gent les individus en compétition lorsqu’ils aspirent collectivement aux mêmes buts. Tous égaux, donc tous enne mis. Et c’est ainsi que, selon Stendhal, les temps modernes marquent le triomphe de l’envie, de la jalousie et de la haine impuissante.

Quelle différence existe-t-il entre l’envie et la jalousie?

La jalousie concerne la perte d’un être qui nous est cher et dont la tendresse peut nous être ravie. Les années 60 avaient cru pouvoir éliminer ce sentiment par l’émancipation des mœurs. On a fini par s’apercevoir qu’il s’est dissimulé sous d’autres stratégies, qu’il renaît sans cesse des efforts déployés pour le tuer. La vie de couple arbitre en permanence entre deux états : on y est jaloux de son indépendance et on est jaloux de l’autre. Mais ce vilain penchant, n’en déplaise aux réfor mateurs du cœur humain, n’a aucune raison de disparaître. Au-delà du désir de possession, la jalousie marque la tragédie de l’altérité, le fait qu’on bute sur l’irréductible différence de l’autre et qu’il y aura toujours entre nous un mur infranchissable. Si je ne suis jaloux que des gens que j’aime, tout, en revanche, alimente l’envie : la béatitude des autres, leur fortune, leur position sociale et jusqu’à leur malheur, leur maladie qui les rendent plus intéressants que nous.

Quels sont les symptômes de l’envie ?

Le plus évident concerne les signes extérieurs de richesse, dans une société qui valorise plus qu’une autre le succès économique. Quand les êtres de milieux différents se côtoient, l’étonnement, mais aussi la rage, peuvent jaillir de leur confrontation. «Etre pauvre à Paris, disait Emile Zola, c’est être pauvre deux fois.» Notre misère serait plus supportable si nous ne voyions pas en permanence la félicité des nantis. Prenez une situation typique de cette période estivale : un port de plaisance, Saint-Tropez par exemple, où la foule des vacanciers, en short et en tongs, vient admirer les élus et les prospères qui mènent grande vie sur leurs yachts. Télescopage brutal qui peut susciter plusieurs réactions. Soit : je ferai tout un jour pour devenir l’un d’entre eux. Soit : je vais me battre pour que nul n’ait le droit d’étaler sa richesse de façon obscène devant les démunis. Ou encore, position plus sage : je me réjouis du bonheur des millionnaires, mais je ne place pas la réussite dans l’étalage de biens matériels.

Mais les riches eux-mêmes sont pris dans le mécanisme pervers de la convoitise insatiable envers les mieux lotis qu’eux : à côté des opulents ordinaires, il y a les Grands Fauves dont la magnificence offusque les autres. La même société qui suscite l’envie crée toutefois des mécanismes capables de la freiner. Le premier, c’est le journal télévisé. Lucrèce, dans le De natura rerum, disait du sage qu’assis au bord de la falaise, il regarde les imprudents s’abîmer en mer pendant la tempête. Cette formule, qui est un éloge de la modération et de l’égoïsme sacré, décrit assez bien la position du téléspectateur du 20 heures. Si les médias ont pour ambition de nous alerter sur les tragédies du monde, ils renforcent aussi notre sentiment de quiétude. Quand le Japon est ravagé par un tsunami, menacé par un accident nucléaire, le téléspectateur suit ces informations avec une complaisance secrète : c’est épouvantable, mais je suis à l’abri. Ma vie est peut-être médiocre, mais elle est préférable à celle de ces populations sinistrées. C’est affreux à dire, mais nous avons besoin parfois du malheur des autres pour nous sentir bien, confortés dans nos choix. La deuxième machine à freiner l’envie, c’est la presse people ou la presse féminine. D’un côté elle étale sous nos yeux des gens beaux, fortunés et bronzés, à qui tout semble réussir ; en même temps elle enregistre avec un certain sadisme la lente dégradation des stars, leur enlaidissement, leurs rides, leurs bourrelets, leurs tourments amoureux, leurs échecs professionnels. Elle exalte la splendeur des êtres autant que son côté éphémère : les dieux vivants règnent sans partage quelques années, mais un jour, ils peuvent tomber de leur piédestal. Finalement, les puissants de ce monde ne sont pas si contents et je n’ai pas à convoiter leur destin.

Quels sont les symptômes de l’envie?

Notre société ne crée-t-elle pas des envies artificielles?

En permanence, et c’est ce qui explique son charme et son danger. C’était déjà la querelle du luxe entre Voltaire et Rousseau. Pour le premier, le luxe faisait des hommes polis, brillants, il ouvrait leur cœur à toutes sortes de raffinements. Pour Rousseau, au contraire, il représentait la création d’appétits factices qui arrachaient l’individu à lui-même, en faisaient la proie de l’amour-propre. Aujourd’hui, le consumérisme, les grandes villes ne cessent de nous suggérer des modèles de jouissance, de plaisir, de styles de vie dont nous sommes privés. Dans les lieux publics, les grandes artères, je croise des inconnus dont l’allure peut m’attirer mais aussi me déranger. Le spectacle du bonheur des autres n’est pas toujours une source de réjouissance : il peut me blesser quand il est trop ostentatoire, démonstratif. Ces éclats de rire d’une joyeuse compagnie résonnant à mes oreilles me renvoient à ma solitude, à ma petitesse.

Jules Renard disait qu’il ne suffit pas d’être heureux : encore faut-il savoir que les autres ne le sont pas. Le bonheur est un bien dont le prix est de n’appartenir qu’à moi. L’envieux guette avec une gourmandise sadique la chute des êtres qui sont à la fois ses modèles et ses rivaux. Il en tire une jubilation morose, proche du ressentiment, en attendant de trouver de nouvelles personnes qu’il courtisera et détestera à la fois.

De façon plus dramatique, la Seconde Guerre mondiale a ouvert un nouveau chapitre dans l’histoire de l’envie, conséquence de l’Holocauste : la victimologie. Tous les peuples, les minorités rêvent de s’installer dans la position imprenable du réprouvé : pouvoir se dire l’objet d’une persécution, d’un génocide, c’est bénéficier d’une rente morale qui vous rend intouchable, c’est accéder à la grande lumière de la reconnaissance. D’où la concurrence victimaire qui oppose descendants d’esclaves, ex-colonisés, Juifs, femmes, prolétaires. L’affaire Strauss-Kahn en est l’illustration parfaite, qui oppose le mâle blanc fortuné et « pervers » à la femme de ménage africaine et méritante. La culpabilité du premier se déduit de son sexe et de sa richesse ; quoiqu’il ait fait ou pas, il a tort. Même si la justice le déclarait innocent, il serait coupable. Incroyable retournement : depuis un demi-siècle, la souffrance est devenue désirable, toutes les minorités et tous les peuples rêvent de faire partie de l’aristocratie des parias.

Connaît-on l’origine de ses envies? Est-on conscient d’être envieux?

Que l’on soit conscient ou non ne change pas grand-chose à l’affaire : on n’en est pas moins avide. Ce qui suscite cette maladie si humaine, c’est la proximité de ceux dont on jalouse le physique, le salaire, la vie amoureuse, l’élégance. Vivre en permanence auprès de gens plus aisés, plus dynamiques – qui soulignent vos limites – ne peut qu’aviver la blessure narcissique. Il y a un milieu où l’envie règne en maître, c’est celui de l’art et de la littérature. Avec un paradoxe : ce milieu, traditionnellement orienté à gauche, est aussi celui où les lois du marché s’appliquent de la manière la plus impitoyable. Quand vous êtes peintre, musicien, comédien, réalisateur ou écrivain, votre valeur n’est due qu’à l’opinion des autres. Quels que soient vos talents, vous serez considéré uniquement en fonction de vos ventes, de vos succès. Qu’ils fléchissent et vous voici qualifié de has been, rangé dans la catégorie infamante des perdants. Il y a un hiatus entre la générosité politique affichée par les grands noms du monde de l’art et de l’intelligentsia et la cruauté sans merci qui caractérise les antagonismes entre artistes. En hausse, en baisse : comme à la Bourse, notre cote monte et descend dans un yoyo infernal que nous ne contrôlons pas. Cette violence joue à nu dans les cercles de la bohème, des avant-gardes où il n’existe pas de sécurité sociale, de filets de protection, il n’y a que l’approbation ou l’indifférence du public, l’instance la plus versatile qui soit. Comme l’empereur romain dans les combats de gladiateurs, c’est lui qui lève ou baisse le pouce.

Quel est le contraire de l’envie: la retenue, l’ascèse?

L’appauvrissement volontaire pour tous a été la réponse d’un certain socialisme à l’envie suscitée par le capitalisme. La mise en œuvre de ce principe dans l’ex-URSS a provoqué un gigantesque échec : au lieu d’enrichir l’ensemble de la société, il n’a abouti qu’à anémier l’ensemble du peuple. Ce discours ressurgit aujourd’hui à travers un certain écolo gisme, dans les slogans de « la sobriété heureuse », de « l’abondance frugale », seule voie, nous dit-on, pour sauver la planète. La vraie richesse ne serait pas dans les biens, mais dans les liens ; se déposséder matériellement, ce serait s’enrichir spirituellement. Je ne vois pas par quel miracle nous aurions une vie culturelle plus riche si nous nous éclairions à la bougie. Cela dit, un des torts d’un certain libéralisme à l’anglo-saxonne a été de méconnaître la force de l’envie. .

Les théories libérales postulaient que l’égoïsme des êtres, lorsqu’il était soumis au libre marché, permettait de concourir au bonheur de tous. C’était oublier que, dans une société comme la nôtre, les vaincus ne se satis font pas de leur sort. Tous les êtres n’ont pas le ressort suffisant pour repartir sur une autre base s’ils ont échoué. Les Américains et les Français ont deux attitudes différentes vis-à-vis de l’échec. En France, il est infamant, vous marque à vie ; aux Etats-Unis, jeune nation portée par le culte de l’entreprise, il fait partie du cursus normal de la vie, il est une étape sur le chemin du triomphe. C’est qu’aussi nous avons deux usages de la richesse. Chez nous, les opulents se cachent, stratégie de la discrétion pour ne pas blesser les moins pourvus ; aux Etats-Unis, ils se montrent, stratégie de l’ostentation pour susciter l’admiration et encourager les autres à suivre leur exemple.

Peut-on guérir de l’envie?

On sort de l’enfer de l’envie par l’admiration. L’autre n’est pas seulement un rival dont l’éclat vous blesse, il est aussi un souffleur au sens que le mot a pris au théâtre. Il nous suggère, nous souffle mille manières de vivre autrement, de tracer de nouveaux chemins. Les bouffées venimeuses de la jalousie peuvent alors se renverser en émulation, en curiosité, autrui devenir un conducteur de désirs au lieu d’un obstacle intolérable. La bonne société est celle qui sait mettre les vices les plus inavouables au service du bien-être commun.

 

L’INVIDIA È PROFONDAMENTE LEGATA ALLA DEMOCRAZIAultima modifica: 2011-10-02T11:27:36+02:00da gianni.pardo
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