LA PECORA DELL’HOMO SAPIENS

Partendo dalla crisi greca, si può vedere il problema in un ambito più generale, per capire che cosa porta gli Stati ad una situazione di fallimento o di rivoluzione.
In origine, immediatamente dopo il baratto, il denaro è stato costituito da un bene che tutti accettavano in pagamento, per esempio del bestiame: pecus in latino, da cui pecora e pecunia. Ma un animale può essere giovane o vecchio, in buona salute o malato, e dunque è meglio usare qualcosa di incorruttibile e stabile: l’oro, per esempio; o il sale, nei posti in cui scarseggia, come il centro dell’Africa. In tutti questi casi, chi “compra” un bene ne offre in cambio un altro: la pecora, il sale, l’oro e non si è lontani dal baratto. Col progresso tuttavia, i commerci non potevano svolgersi scambiando un metallo prezioso e pagando in contanti. Non c’era abbastanza oro ed era anche necessario il credito. Dunque nacquero la cartamoneta e le banche. La banconota, anche se non sembra, è in un certo senso un titolo di credito: “Questo foglietto dimostra che ho prestato ad altri un bene o un servizio ed ora sono creditore di un bene o di un servizio”. Ma – ecco uno dei problemi – quel documento rimane malgrado tutto un pezzo di carta. E la cosa non è priva di conseguenze.
Come si sa, nei casino non si puntano banconote ma solo gettoni. Perché? Perché se la gente si rendesse conto di quanto sta rischiando starebbe più attenta e il casino guadagnerebbe meno. Qualcosa del genere avviene con la moneta. Gli Stati, dal momento che si tratta di carta, possono avere la tentazione di non badare ai rischi e alle perdite. E quando i nodi fatalmente vengono al pettine i governi possono reagire in vari modi. Possono ripianare i deficit con la fiscalità, ma di solito questa strada è già talmente battuta che un ulteriore incremento della pressione potrebbe provocare malcontento e, al limite, una rivoluzione; oppure possono cavarsela deprezzando la moneta: dal momento che la stampano loro, ne possono stampare un po’ di più. Con l’inflazione lo Stato ruba una parte del valore della moneta detenuta dai cittadini. Naturalmente c’è anche la possibilità di contrarre debiti, che sul momento fa felici tutti: lo Stato infatti manda il conto ai cittadini di domani. O, nel caso del debito pubblico italiano, ai loro discendenti.
Con l’avvento dell’euro, le cose sono cambiate. Gli Stati non hanno più il potere di creare inflazione, perché non possono immettere più liquidità nel sistema; la leva fiscale è impopolare e sostanzialmente esaurita: rimane solo la possibilità di contrarre debiti (emettendo dei titoli pubblici). Ma i mutui sono possibili finché i creditori sono certi che il debitore onorerà le scadenze. Se invece sorge il dubbio, si chiudono i rubinetti. Da un lato lo Stato non ottiene più prestiti, dall’altro i precedenti prestiti arrivano a scadenza. A questo punto esso può sospendere i rimborsi, cioè fallire, come è avvenuto in Argentina.
Come si vede, tutto nasce dal fatto che l’uomo è un animale più visivo ed affettivo che razionale. Mentre in origine il denaro rappresentava un credito per una prestazione già eseguita, col tempo, dal punto di vista emotivo, è divenuto un pezzo di carta. Da questo nasce la tentazione dei falsari: dai poveracci che hanno una tipografia clandestina agli  Stati che creano inflazione o debito pubblico. Si dimentica che alla fine arriva sempre il conto: mi hai promesso una pecora, dammela. E se uno la pecora l’ha mangiata? Il fatto è che i governanti sperano sempre che il problema sia affrontato da altri, quando loro non saranno più al potere.
Il difetto è strutturale. Dipende dalla naturale instabilità della democrazia. Un potere che sia inamovibile o quasi si pone il problema della situazione fra cinque o dieci anni, invece un potere fragile si pone il problema di sopravvivere ancora un po’. E se per ottenere consenso deve “comprarlo” contraendo debiti, non si fa scrupoli. Non a caso il debito pubblico italiano è nato in un tempo in cui i governi in media non duravano nemmeno un anno.
Ci sono dei rimedi, a tutto questo? Da un lato i governi non dovrebbero mai contrarre debiti, dall’altro, nel caso, il popolo ne dovrebbe pagare il fio quanto più amaramente è possibile: in modo che si ricordi di diffidare dei demagoghi “generosi”. Ma sembra una speranza vana.
Forse l’uomo non è così sapiens come dicono.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
7 maggio 2010

LA PECORA DELL’HOMO SAPIENSultima modifica: 2010-05-08T15:58:36+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo