MUBARAK SI È DIMESSO: E CON QUESTO?

Mubarak si è dimesso. Esulta la folla egiziana, esulta il Presidente Obama e si festeggia dovunque: nelle cancellerie occidentali, nei talk show, nelle redazioni dei giornali. Non ci si accorge che è un atteggiamento infantile. Solo i bambini credono che sia personalmente quel vigile urbano che gli impedisce di giocare. Solo loro credono che, se lo eliminassero, poi potrebbero giocare a volontà. Gli adulti sanno che la sorte dei Paesi non dipende tanto dai singoli individui quanto dalla società stessa.
Questo errore è quotidianamente commesso anche in Italia. Qui in tanti credono che tutto dipenda da Silvio Berlusconi. Se non ci fosse lui, pensano, la sinistra vincerebbe le elezioni indefinite volte. In realtà, nel 1994 il Cavaliere ha solo capito che gli italiani voterebbero per chiunque sia contro la sinistra, semplicemente perché essa normalmente è minoritaria nel Paese. Ed è quest’ultimo dato, che bisognerebbe modificare.
Gli egiziani hanno concentrato sul nome di Mubarak il loro scontento. Hanno parlato di insufficiente democrazia, di prezzo del pane e non si sa bene di che altro: gli slogan erano soprattutto diretti contro il rais. Ma i problemi fondamentali di quella nazione sono altri. In primo luogo, essa non è in grado di nutrire i suoi abitanti: dunque le importazioni di derrate e gli aiuti sono una parte essenziale della sua economia. E questo non lo modificheranno certo le dimissioni di Mubarak. È vero che una buona parte degli aiuti degli Stati Uniti è costituita da armi, ma è anche vero che, se quelle armi non gliele fornisse Washington, l’Egitto dovrebbe pagarle. E per giunta le esportazioni del Paese sono poca cosa.
Altro elemento essenziale dell’economia è la pace con Israele. La retorica islamista è cattiva consigliera. L’esercito non è più nelle condizioni disastrose dei tempi di Nasser ma in una guerra perderebbe molti più uomini degli israeliani. Inoltre non potrebbe comunque eliminare uno Stato che dispone di armi nucleari: una sola bomba potrebbe uccidere tutti gli abitanti del Cairo.
Si chiede una perfetta democrazia e si dimentica che essa non è il risultato di una sommossa di piazza ma di uno sviluppo di civiltà. Nei Paesi profondamente corrotti si preferisce sempre favorire l’amico che obbedire alla legge. Mubarak ha imposto lo stato d’emergenza per un trentennio ma lo stesso si è sempre votato, magari con qualche irregolarità: e forse non si può ottenere di più.
In Egitto, come in tutti i Paesi musulmani, l’avversario dello Stato è l’integralismo musulmano. Se è vero che, fra le nazioni del Vicino Oriente, questa è la più colta e la più progredita, e se è vero che in una certa misura la sua società è laica, è anche vero che esiste un’organizzazione – la Fratellanza Musulmana – che rappresenta un pericolo. Anche se oggi i suoi esponenti vestono in giacca e cravatta, si sa che sono idealmente collegati all’integralismo, a Hamas  e forse ad Al Qaeda.
L’integralismo musulmano è totalmente contrario alla democrazia perché per esso il sovrano non è il popolo: è la parola del Profeta. La teocrazia è l’unica forma di governo non blasfema. L’unica legge è la sharia. I militari sanno dunque che un’eventuale prevalenza della Brotherhood nelle elezioni andrebbe contrastata con la forza. Non diversamente da quanto è avvenuto in Algeria. La democrazia egiziana, se vuole sopravvivere, ha un limite: si può votare per chiunque ma non per i fanatici musulmani. O almeno si può votare per loro solo finché non rappresentano un pericolo.
Il disastro di un’affermazione della Fratellanza – a parte i riflessi internazionali – non sarebbe frenato dalle sofferenze degli egiziani. Gli integralisti sono indifferenti al bene del popolo. Se dunque cessassero gli aiuti, se si inaridisse il turismo, se i poveri fossero molto più poveri di prima, la cosa non li commuoverebbe: il problema è salvare le anime della gente, non farla stare meglio sulla Terra.
Oggi sappiamo soltanto che Mubarak si è dimesso e la sorte di rais ci interessa ben poco: ma se i militari saranno in grado di contrastare con la forza tendenze distruttive per la nazione potremo dire che, dopo tanto strepito, non sarà successo nulla.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
12 febbraio 2011

MUBARAK SI È DIMESSO: E CON QUESTO?ultima modifica: 2011-02-12T16:03:51+01:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “MUBARAK SI È DIMESSO: E CON QUESTO?

  1. Chiarisco subito che i suoi timori mi sembrano tutt’altro che infondati, che non conosco certo come un locale o uno studioso la realtà politica egiziana, e che la situazione nel paese mi sembra, comunque, tutt’altro che risolta dopo le dimissioni di Mubarak ma, anzi, mi pare ancora più incerta. Non riesco però a condividere il pessimismo del quale mi sembra permeato il testo. Voglio, dire: anche se fosse vero tutto il peggio, qual’è l’alternativa? Siccome nella società c’è una componente islamica fondamentalista l’Egitto deve rimanere una dittatura militare fino alla fine dei secoli? E’ evidente che la gestione delle cose operata da Mubarak nello scorso trentennio (e dopo trent’anni al potere qualche ragione per essere il bersaglio della folla ce l’ha) non ha scontentato solo gli islamisti più radicali ma anche, pare, una buona fetta della borghesia egiziana. Che non credo voglia trovarsi a vivere in una teocrazia. Il pericolo esisterà anche, ma secondo me bisogna anche lasciarli un po’ decidere per se stessi… dubito che l’Egitto possa diventare nei prossimi vent’anni la nuova culla dell’illuminismo lombardo, ma non credo nemmeno che diventerà un nuovo Iran. Credo che vi siano strade intermedie tra la teocrazia e il controllo militare sul paese. E che piano piano, debbano percorrerle anche loro.

    Non riesco ad inserire un mio commento. Le rispondo “modificando” il suo.
    Accidenti, ero convinto di avere risposto a questo suo commento ma qui non lo ritrovo.
    Comunque le dicevo che in buona misura sono d’accordo con lei. Qualche risposta gliel’ho di fatto data ieri scrivendo l’articolo che trova oggi, sul “significato della rivolta”.
    Dittatura militare fino alla fine dei secoli? Non necessariamente. Mi basterebbe, come in Turchia in passato, democrazia sorvegliata. Purtroppo in quel grande Paese non sono bastati quasi novant’anni di kemalismo, se oggi si arriva dove si è arrivati. E allora non democrazia sorvegliata ma dittatura militare, come in Algeria?
    Che vuole che le dica. È una situazione deprimente.

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